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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2. Alessandro ManzoniЧитать онлайн книгу.

Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2 - Alessandro Manzoni


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      Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

      LE PRIME ACCOGLIENZE

AI«PROMESSI SPOSI»

      I

      Giulia, la primogenita del Manzoni, scriveva al Fauriel l'8 luglio del '27: «Debbo dirvi che abbiamo provato un gran piacere nel vedere il lieto successo del libro del babbo. In verità, superò non solo la nostra aspettativa, ma ogni speranza; in meno di venti giorni se ne vendettero più di 600 esemplari. È un vero furore; non si parla d'altro; nelle stesse anticamere i servitori si tassano per poterlo comprare. Il babbo è assediato da visite e da lettere d'ogni specie e d'ogni maniera; furono già pubblicati alcuni articoli intieramente favorevoli ed altri se ne annunziano».

      Non senza una trepidazione grande l'aveva finalmente dato fuori, come si rileva dalle lettere che il Tommaseo, allora a Milano e in familiarità con lui, era andato di mano in mano scrivendo a Giampietro Vieusseux1. «Il suo romanzo o addormentato»: (così il 12 novembre del '26) «egli teme di pubblicarlo, tanta è la nausea che ispira a ogni bene l'aspetto di quella canaglia che ha parte nella Biblioteca Italiana». E di lì a dodici giorni: «Egli s'era scuorato un po', non per tema di que' vili imbecilli, ma per quella stanchezza di mente che nasce al pensiero di vedere male accolta un'opera che costò tanta pena, e che, dic'egli, non fa male a nessuno. Io temo, soggiungea, che mi vogliano far scontare la troppa aspettazione ch'egli hanno di questo libro: aspettazione della quale, a dir vero, non è mia la colpa». Gli tornava a scrivere il 2 decembre: «Manzoni ripiglierà il suo romanzo, da cui l'aveva scuorato lo zelo dell'amicizia; voglio dire le critiche fatte al 2º. canto del Grossi»2. In un'altra, senza data, ma del febbraio o del marzo del '27, soggiunge: «Manzoni è all'ultimo capitolo ancora. Ma incomincia a stampare l'altra metà dell'ultimo tomo; onde innanzi alla fine dell'anno si può sperare di veder il Romanzo alla luce3. Dev'essere un gran gridare, un gran sentenziare de' Classici. E la Biblioteca Italiana come lo prenderà d'alto in basso!» Gli torna a scrivere il 12 maggio: «Manzoni non ha cominciato ancora a stampare l'altra metà dell'ultimo tomo; ma non va, mi dice, in campagna, se non se pubblicatolo. Io godo d'andarmene via: penerei a sentire la lotta che forse gli si prepara, e forse non potrei non mischiarmivi».

      Per «benevolenza modesta» dell'autore, aveva egli letta gran parte, «innanzi che data alla luce», di «quella immortale più storia che romanzo»; e, nel confidarlo al Vieusseux, la diceva «divina cosa». Ne lesse anche de' tratti al Rosmini, «che, passeggiando la sua stanza, sorrideva e ammirava»4. Avvenuta la pubblicazione, seguitò a ragguagliare l'amico della varia fortuna del Romanzo. «I giudicii sono ancor vaghi», gli scriveva il 20 di giugno. «Il pubblico è incerto; il nome di Manzoni lo preme e incute rispetto. La virtù ha i suoi diritti». E di lì a quattro giorni: «A Zaiotti e ad Ambrosoli il romanzo del Manzoni non piace. Dicono che non conosce la lingua; che il secondo tomo5 meriterebbe di andar tutto al diavolo, ch'è un disturbo dall'azione, che negli altri però l'azione (sentite i pedanti!) cammina bene. A molti piace molto: tutti però ci trovano troppi particolari: quelli che sanno scrivere ci trovano delle improprietà, e difetto di numero. Alcuni colloqui si notarono come eccessivamente veri. Si confessa però ch'è un modello di stile romanziero. Una signora ha trovato ottimo il titolo di storia6, perchè, dice, par tutto vero. Un'altra, malissimo prevenuta, dovette pur piangere. S'accorse, per altro, ch'era un libro pericoloso, perchè i contadini vi fanno miglior figura che i nobili. L'istesso padre Cristoforo, diceva ella, è un mercante. V'ebbe chi ha trovato che Manzoni guasta la letteratura, perchè… perch'è inarrivabile: onde quelli che l'imitano, noi potendo agguagliare, non fanno che inezie. Ad altri parve leggiero, e insignificante il titolo: ad altri voluminosa la forma. Una famiglia inglese, che lo voleva comperare, se ne tenne; perchè lo trova non libro da viaggio, ma da chiesa; non romanzo, ma Bibbia». Il 18 di luglio seguitava a informarlo: «Parliam di Manzoni… Si diceva che il suo merito è di nulla tralasciare, neppure le menome circostanze, le menome pieghe del cuore; si lodava l'artifizio della narrazione e dei passaggi; e che quel libro doveva studiarsi anche per la lingua; e che nel secondo tomo quella conversione è mirabilmente preparata e descritta; e che la prolissità non annoia; e che il terzo tomo è di tutti il più bello; che quella peste è cosa sovrana, quel lazzeretto dalla potenza della pittura aggrandito. Quest'ultima espressione annuncia un ingegno che giudica un punto più elevato del solito: e questi sono gl'ingegni a cui deve piacere Manzoni. Era ben piacevole, nei primi giorni in cui l'opinione pareva pendere più al male che al bene, il vedere l'accanimento di certe bestiucce letterarie a trovare i difetti, in quel libro in cui poco innanzi non sapevano cercare che pregi. E per aver trovato in un luogo marmaglia d'erbe, a gridare: vedete che improprietà… con un'aria che inviluppava di disprezzo tutto il libro quant'era. Una donna che, malgrado la presunzione contraria, è forzata a piangere in quella lettura, val bene un articolo. Io confesso d'aver pianto anch'io al terzo tomo: e un giorno dell'anno passato che fummo da Manzoni a Brusuglio e ch'io leggeva quella medesima conversione del tomo secondo, la trepidazione si leggea chiara nel volto di tutti gli udenti e del medesimo autore. Quest'è il caso in cui un autore può senza orgoglio lodare sè stesso. Ma se volete un giudicio d'altro genere, e non meno onorevole: un vecchio, letto il primo tomo, trovava piacere a riportare le cose lette, e narrarle anche a chi le sapea: e prima che il libro uscisse, il legatore (poichè Manzoni si fece legare le copie in casa) il legatore veniva congratulandosi con lui del merito di quell'opera, e gliene ripeteva alcun passo nel suo dialetto, mostrando d'averlo tutto inteso benissimo. I giudizii dei letterati sono ben diversi. Non so se io v'abbia scritto di colui che trovava mirabile soprattutto nel primo tomo la pagina 1137; quasi che in un'opera del Manzoni fosse possibile o lecito prescerre una pagina. Altri trovava da lodare quegli occhi del frate, paragonati a due cavalli bizzarri. Nei quali elogi voi forse, così di lontano, non potrete sentire quanto di velenoso ci sia8. Questi vili, non potendo sfogarsi sull'ingegno, gli mettono a conto e il lungo studio ed il lungo tempo occupato, e la sua stessa virtù». Soggiungeva poi: «Quello che offenderà molti, certamente, è la troppa religione che c'è. Per apprezzar quel lavoro e comprenderlo, conviene aver lungo tempo conversato con l'autore; conoscere le sue idee letterarie e politiche, il suo modo di vedere le cose. Ed ancora non basta: la storia di quel secolo egli l'ha studiata nelle prime fonti, e ne' rivoli più solitarii: tante bellezze che paiono di invenzione sono storiche, sono inspirate dal fatto, ch'è quanto a dire sono doppie bellezze. Così tante sottili allusioni, che racchiudono il germe d'un sistema. E v'ebbe chi trovò migliore il Castello di Trezzo!» Lasciata la Lombardia e tornato nella nativa Dalmazia, il Tommaseo seguita a parlar de' Promessi Sposi nelle sue lettere al Vieusseux. «Da Milano» (così in una del 17 d'agosto) «si scrive che le mille copie del Romanzo son tutte spacciate; che qualcuno ne ride in segreto, che Monti chiacchiera dello stile9; che i più tacciono; che molti applaudono, purchè però lo si chiami non romanzo, ma storia. Sento che a Padova piacque molto alle donne».

      Giacomo Leopardi ritrae al vivo l'opinione pubblica d'allora intorno ai Promessi Sposi, in una lettera che scrisse, da Firenze, il 23 agosto del '27, al libraio milanese Antonio Fortunato Stella: «Del romanzo di Manzoni (del quale io solamente ho sentito leggere alcune pagine) le dirò in confidenza che qui le persone di gusto lo trovano molto inferiore all'aspettazione. Gli altri generalmente lo lodano». Le «persone di gusto», cioè i letterati, erano partigiane, più o meno, de' vecchi pregiudizi della scuola classica, e per conseguenza il Manzoni, che aveva voltato le spalle a questa scuola, dando un avviamento nuovo all'arte, era agli occhi loro uno scrittore fuori di strada. Tutti però si accordavano nel riconoscergli un grande ingegno, ma con questa differenza: per gli arrabbiati era nè più nè meno un Attila della letteratura e dove metteva le mani guastava ogni cosa: i temperati, pur trovando ne' suoi scritti un'infinità di difetti, vi scorgevano però de' tratti di singolare bellezza; tratti che non mancavano di gustare con ammirazione schietta e sentita. È utile e curioso il rievocare il ricordo di questa battaglia tra le «persone di gusto» e gli «altri»; i quali, oggetto, sulle prime, di compassione,


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<p>1</p>

Barbi M., Alessandro Manzoni e il suo romanzo nel carteggio del Tommaseo col Vieusseux; nella Miscellanea di studi critici, edita in onore di Arturo Graf, Bergamo, 1903; pp. 235-256.

<p>2</p>

I Lombardi alla prima crociata, canti quindici di Tommaso Grossi, Milano, presso Vincenzo Ferrario, 1826; tre vol in-8.º di pp. VII-143, 152 e 163, dettero occasione, come ebbe a dire Ermes Visconti, a «un diluvio di libercoletti, quasi tutti pessimi, pro e contro», comparsi alla luce tra l'aprile e il maggio del 1826, per la più parte. Cfr. Vismara A., Bibliografia di Tommaso Grossi, Como, Ostinelli, 1886, pp. 37-40. A confessione del Tommaseo, il Manzoni, «uomo di pace, non lesse di tutte quelle scritture che l'articolo nostro: fu poi forzato a leggere quel di Parenti, che lo fece, dic'egli, star male per quindici giorni». Anche «l'articolo nostro», cioè il secondo di quelli che il Tommaseo inserì nell'Antologia, di Firenze [n.º LXX, ottobre 1826, pp. 3-30], al Manzoni dispiacque. «Con quella sincerità ch'è sua propria, ma che mi onora, disse d'aver letto l'articolo, e che gli pareva impossibile che fosse mio. – E perchè? Vi traspare forse l'astio? L'invidia? Io mi conosco abietto sì, ma non tanto da invidiare al buon Grossi. – Astio no, ma disprezzo. Pare che le lodi ella le abbia concesse alla compassione e al riguardo degli amici del Grossi; ma le abbia insieme attemperate, anzi sepolte sotto la censura e il biasimo».

L'articolo di Marcantonio Parenti (nato a Montecuccolo nel Frignano il 30 gennaio 1788 e morto a Modena il 23 giugno del 1862), che fece giustamente indignare il Manzoni, sfuggì alla diligenza del Vismara. S'intitola: Riflessioni sulla Mitologia e sul Romanticismo in occasione che si pubblica per la prima volta Il Doroteo dell'Ottonelli. Si legge a pp. 401-418 del tom. IX e a pp. 3-41 del tom. X delle Memorie di religione, di morale e di letteratura, di Modena.

<p>3</p>

In una lettera del febbraio '26 aveva scritto, parlando del Romanzo: «prima della gita pedestre, non può finirlo». Si trattava di un «viaggio pedestre di Manzoni nel Bergamasco», che il Vieusseux riteneva desse «luogo a qualche bella descrizione nel suo romanzo».

<p>4</p>

Il Rosmini, il 23 novembre del '26, scriveva al prof. Pier Alessandro Paravia: «Leggo di questi giorni il Romanzo del Manzoni, che parmi una maraviglia. Egli mel comunica per sua gentilezza: io me ne inebrio, e penso che all'Italia apparirà come cosa nuova: e a sì limpido lume novellamente acceso, a lei parrà esserle accresciuto il veder della mente. Che cognizione dell'uman cuore! che verità! che bontà, la quale ovunque trabocca da un cuor ricolmo!»

<p>5</p>

Il secondo tomo della prima edizione abbraccia i capitoli XII-XXIV.

<p>6</p>

Per testimonianza della Gazzetta di Milano, «fu voce generale» che il titolo di storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta «altro non significhi se non che l'autore tolse qua e là da croniche e storie molti particolari della sua opera, ma che il merito di averla tessuta e ordinata sia tutta di sua spettanza».

<p>7</p>

È la scena nella quale il P. Cristoforo chiede perdono al fratello dell'uomo che odiava cordialmente, e che uccise. A quella scena sublime, taluno de' parenti, «che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch'era quel rodomonte che ognun sa, parlò invece delle penitenze e della pazienza mirabile d'un fra Simone, morto molt'anni prima». È un accenno alla vendetta che prese il conte Muzio Pallavicino contro il marchese Stanislao Piasio; tremenda tragedia della quale in Cremona si parlò per gran tempo e ne son piene le sue cronache.

<p>8</p>

Io, per verità, non ci so vedere tutto il veleno che ci vede il Tommaseo. È gente di corta levatura, che essendo incapace d'abbracciare con uno sguardo solo la bellezza dell'insieme, la gusta ne' brani che la colpiscono maggiormente.

<p>9</p>

Il Monti però ne scrisse al Manzoni con viva ammirazione. «Papadopoli e Prina» (son sue parole) «mi aveano messo in core la dolce speranza che mi avreste presto consolato d'una vostra desideratissima visita. Deluso di questa lusinga, e temendo che la mia imminente mossa per Roma mi tolga la consolazione di più rivedervi, poichè l'un dì più che l'altro sento avvicinarsi il mio fine, mi presento in iscritto per dirvi che vado ad aspettarvi in cielo, dove ho certa speranza di rivedervi a suo tempo. Intanto prima che il mio don Abbondio m'intuoni il proficiscere, vo' dirvi che ho ricevuto i vostri Sposi Promessi, e di essi dirò quello che già dissi del Carmagnola: vorrei esserne io l'autore. Ho letta la vostra novella, e finitane la lettura, mi son sentito meglio nel core. Sì, mio caro Manzoni; il vostro ingegno è mirabile, e il vostro core è una fontana d'inesauribili affetti, ciò che rende singolare il vostro scrivere e vi pone in un'altezza, cui solo possono aggiungere i pauci quos aequus amavit Jupiter, al modo stesso che pochi possono amarvi e stimarvi come il tutto vostro Monti».

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