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Gli ultimi flibustieri. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Gli ultimi flibustieri - Emilio Salgari


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se i fantasmi si fossero subito accorti di quel segno cristiano, ripresero a martellare ferramenta ed a trascinare catene, sbattendole contro le botti, e producendo cosí un fracasso veramente infernale.

      L’ufficiale e le due guardie avevano rimontato sollecitamente qualche gradino, urtando la bella castigliana, la quale teneva ben alto lo spiedo.

      – Signor ufficiale, – disse il guascone, simulando un grande spavento. – Volete lasciarmi solo alle prese coll’anima di quell’uomo misterioso?

      – No, no, prendo solamente un po’ di fiato, – rispose l’altro, il quale era pallidissimo.

      – Dovevate bere qualche gocciolo ancora, prima di avventurarvi in queste catacombe.

      – È vasta dunque la vostra cantina?

      – Io non sono mai riuscito a percorrerla tutta. Si dice che finisca nell’ossario del cimitero di città.

      – Brrr!… – fece l’ufficiale. – Non potevate trovare di peggio.

      – Si dice, però io non ho mai potuto verificare questo.

      – Io non vorrei possedere una simile cantina, mio caro taverniere, rispose l’ufficiale.

      Le guardie doppiamente impressionate da quella rivelazione che non s’aspettavano, esitarono un poco prima di riprendere la discesa.

      Se si fosse trattato di misurarsi con degli indios bravos o con dei filibustieri, senza dubbio avrebbero fatto bravamente il loro dovere, senza farsi pregare, ma quella storia di spettri che già si facevano udire e di ossari, metteva nel loro animo uno sgomento d’altronde perdonabile in quei tempi.

      – Andiamo, dunque? – Chiese don Barrejo, il quale faceva tremolare la lampada per simulare un crescente spavento. – Qui bisogna prendere il coraggio a due mani, caramba.

      – Fate lume, – rispose l’ufficiale. – Mi pare che la vostra mano oscilli troppo.

      – Canarios!… Sono dinanzi a tutti e sarò il primo a venire acciuffato e portato all’inferno o nell’ossario. Pensate che io ho una moglie e bellina per di piú.

      – Mostrate dunque il vostro coraggio dinanzi a lei.

      – Se è per Panchita, scendo subito ed accoppo tutti gli spiriti che infestano la mia cantina, – rispose il guascone, il quale frenava a gran pena le risa.

      Rialzò la lampada, tracciò in aria un altro segno della croce e, quantunque nella cantina si udissero sempre sbatacchiare catene contro le botti e di quando in quando degli ululati che parevano uscire dalle gole di lupi arrabbiati, riprese animosamente la discesa, non senza biascicare delle ave marie. Giunto al venticinquesimo gradino, ossia quasi alla metà, il guascone tornò a fermarsi.

      – Signor ufficiale, – disse con voce alterata. – Le mie gambe non mi reggono piú.

      – Non vi mostrate un poltrone dinanzi a vostra moglie, – rispose il capo della ronda. – Qualcuno bisogna bene che vada innanzi e voi solo siete pratico di questa cantina.

      “E poi non siamo noi qui, pronti ad appoggiarvi?”

      – E non udite questi rumori?

      – Non sono sordo.

      – Da che cosa credete che provengano?

      – Lo sapremo quando saremo giunti abbasso. Orsú, taverniere, un po’ di coraggio ed impugna ben salda la tua draghinassa.

      – E se ci fossero veramente dei fantasmi? – disse una delle due guardie, con un certo tremolío nella voce. – Sapete bene, capo, che non si uccidono.

      – E che le alabarde passerebbero attraverso ai loro corpi, come in mezzo ad una nube di fumo, – aggiunse l’altra.

      – Noi non li abbiamo ancora veduti, – rispose l’ufficiale. – Se compariranno davvero… vedremo che cosa converrà fare.

      – Sí darcela a gambe al piú presto, – disse don Barrejo.

      L’ufficiale non rispose. Si trovava troppo imbarazzato a dare una risposta contraria.

      Tirato il fiato, il guascone si decise finalmente a scendere gli altri venti o venticinque gradini ed a raggiungere il fondo.

      La cantina s’apriva dinanzi a loro, ampia, altissima e, come abbiamo detto, ben fornita di botti piú o meno piene.

      Uno spettacolo terrificante, tale da far gelare il sangue anche ad un filibustiere s’offerse allora agli occhi delle tre guardie e del cantiniere.

      I gemiti, le urla, i fragori di ferramenta erano cessati ed invece erano comparsi improvvisamente due spettri, i quali erano saltati giú dalle ultime botti delle due file, mettendosi subito a girare su se stessi e facendo vivamente agitare i loro drappi bianchi.

      Don Barrejo aveva cacciato un urlo ed aveva subito lasciata cadere a terra la lampada.

      – Scappiamo!…Scappiamo!… – aveva gridato con voce strozzata.

      Le tre guardie avevano già voltate le spalle e stavano arrampicandosi affannosamente su per la scala, spingendosi innanzi Panchita la quale strillava come se la scorticassero.

      In pochi istanti si trovarono tutti nella taverna. Le guardie erano pallide ed affannate e pareva che non avessero piú voce.

      Fortunatamente vi era ancora del vino sul tavolo ed un paio di bicchieri di vecchio Xeres, cacciati un dietro all’altro, diedero un po’ di animo ai disgraziati.

      – La tua cantina è maledetta, – disse l’ufficiale, appena poté tirare il fiato. – Erano ben dei fantasmi quelli?

      – Se lo erano!… – esclamò Don Barrejo. – Chiedetelo alle vostre guardie ed a mia moglie.

      – Sí, sí, capo, – si affrettarono a confermare i due alabardieri.

      – Erano dei veri spettri.

      – Allora mio caro, cavatela come puoi, – disse l’ufficiale. – Io non mi occupo di questi affari.

      “Aprici.”

      – Come!… Ve ne andate, signore ufficiale? – strillò Panchita, la quale si era abbandonata su una sedia, simulando uno spavento impossibile a descriversi.

      – I soldati non hanno mai battagliato contro le ombre, bella mia, – rispose il capo della ronda, il quale non vedeva il momento di trovarsi all’aperto. – Le nostre spade e le nostre alabarde non ci servirebbero a nulla.

      – E dove volete che andiamo a dormire? Sotto la pioggia? – disse don Barrejo, il quale fingeva di strapparsi i capelli.

      – Andate a bussare alla porta di qualche vicino.

      – Dovrò allora raccontargli il motivo per cui io e mia moglie siamo fuggiti e domani tutto il quartiere saprà che la mia cantina è frequentata dagli spiriti dell’ossario.

      – E saremo completamente rovinati, – sospirò la bella castigliana.

      – Io non so che cosa farvi, miei cari, – rispose l’ufficiale, il quale fissava la porta della cantina rimasta aperta, come se temesse di veder comparire, da un momento all’altro, uno di quei due spettri giganti. – Io non posso darvi che un consiglio.

      – Dite su, signor ufficiale, – piagnucolò don Barrejo.

      – Di recarvi domani mattina dal Padre Superiore del convento piú vicino e di pregarlo di mandarvi una mezza dozzina di frati con delle croci e con molta acqua santa.

      – Rimanete qui fino a domani?

      – No, mio caro taverniere, ne abbiamo abbastanza dei misteri che si succedono qui. Domani in pieno giorno, verremo forse a ritrovarvi per sapere qualche cosa. Aprite ora e lasciateci andare.

      – Piove ancora al di fuori.

      – Preferisco prendermi dell’acqua, piuttosto di scendere ancora nella tua cantina. Andiamo camerati.

      Don Barrejo, fingendosi disperato, aprí la porta della taverna e tutti, compresa Panchita, uscirono


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