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I figli dell'aria. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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minacciando d’introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata.

      – Giù quel ferro! – urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. – Giù o ti strangolo come un cane.

      – Tu non mi fai paura – rispose l’aguzzino. – Ora lo vedrai.

      Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò.

      – No, costoro – disse precipitosamente – non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli:

      – Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della «Campana d’argento».

      – La liberazione non è lontana – rispose il magistrato. – Abbiate pazienza fino a domani.

      – Allora levateci da questa gabbia.

      – È impossibile per ora.

      – Noi non possiamo resistere a queste atroci scene.

      – V’interessate di quei banditi? – chiese il magistrato.

      – Non siamo abituati ad assistere a simili torture.

      – Manderò via i carnefici.

      – E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora.

      – Avranno dei cibi, – rispose il magistrato. – I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero.

      Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse:

      – Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli.

      – Avete la nostra parola – rispose Fedoro.

      – Vi farò subito servire il pasto.

      – Se non possiamo quasi muoverci?

      – Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell’Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese.

      – Che cosa ti ha detto quel miserabile? – chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano.

      – Che domani saremo liberi – rispose Fedoro, raggiante. – Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all’ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso.

      – Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci.

      – E chi?

      – Quel furfante di maggiordomo.

      – Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della «Campana d’argento», messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone.

      – Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco.

      Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell’ufficiale dei cosacchi.

      Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d’una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari.

      Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime.

      Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione.

      Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all’eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S’intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all’indomani sarebbero stati rimessi in libertà.

      – Fedoro – disse Rokoff, quando furono soli. – Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie.

      – Senza liberarci però – rispose il russo, che pareva un po’ preoccupato. – Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci.

      – No, ma… vorrei essere già lontano da qui.

      – Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un’ora dopo…

      – Dopo che cosa?

      – Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff!

      Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare.

      Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d’imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All’indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini.

      Due lunghe aste, un po’ elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde.

      – Pare che si preparino a portarci via – disse Rokoff. – Che ci conducano all’ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo.

      Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato.

      Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d’una larga e lunghissima scimitarra.

      – Fedoro, – riprese Rokoff – dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo.

      – È vero, Rokoff; sono preoccupato per l’assenza del magistrato.

      – Si sarà ubriacato d’oppio e giungerà più tardi.

      In quel momento l’ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo:

      – Andiamo.

      – E dove? – chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata.

      Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero.

      – Vi ho domandato dove ci volete condurre – replicò Fedoro. – Ci era stata promessa la libertà per stamane.

      – Ah! – fece l’ufficiale.

      Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse:

      – Orsù, sbrigatevi.

      Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più


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