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I figli dell'aria. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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Rokoff, ammira!

      – Non ho occhi bastanti per vedere tutto! Vorrei averne una dozzina invece di due.

      Lo «Sparviero», attraversato il parco dei Mari del Sud, si avanzava sopra Pechino, tenendosi ad un’altezza di quattrocento metri.

      L’immensa città si svolgeva tutta intera sotto gli occhi dei quattro aeronauti.

      La capitale del più potente impero del mondo, o meglio del più popoloso, sorge su una vasta pianura parte sabbiosa e parte fangosa, occupando una estensione immensa, perché nuove borgate continuano ad aggrupparsi intorno alle sue mura.

      Come quasi tutte le città mongole, forma un quadrato più o meno perfetto, la cui superficie è stata valutata in seimila ettari e si divide in due città ben distinte, ognuna delle quali ha un nome particolare: Nuich’ Eng ossia «città entro le mura» o tartara e Cheng-wai o «fuori mura».

      Entrambe però sono cintate e difese da torri massicce di forma quadrata e da bastioni merlati alti da quindici a sedici metri, non certo però capaci di resistere a lungo al tiro delle artiglierie moderne, quantunque sembrino a prima vista poderosi, essendo lastricati di marmo.

      La città fuori mura è quella commerciale, un caos di vie e di viuzze sfondate e polverose, di case di tutte le forme e dimensioni, di negozi e di baracche, dove brulicano milioni di celestiali.

      Quella tartara invece è destinata alla corte imperiale ed è la meglio difesa, avendo mura più alte e massicce e le porte che sono quattro, sormontate da torrioni d’aspetto imponente.

      Se la Cheng-wai presenta gravi sintomi di decadenza, l’altra invece si mantiene ancora superba e sempre meravigliosa.

      Secoli e secoli sono passati sui suoi giardini incantati, sulle sue splendide gallerie, sui suoi grandiosi palazzi, sui suoi tetti di porcellana gialla, sulle sue cupole meravigliose, ma pare che non l’abbiano affatto invecchiata, anzi tutt’altro.

      Lo «Sparviero», dopo essersi librato sulla Cheng-wai, dove si vedevano radunarsi nelle piazze e sulle vie miriadi di cinesi attratti da quell’immenso uccello che dovevano prendere per qualche drago mostruoso, si era lentamente diretto verso la città imperiale, le cui mura rosse spiccavano vivamente fra il verde dei giardini.

      Prima però di prendere la corsa verso i tetti gialli, scintillanti sotto i raggi del sole, lo «Sparviero» con un largo giro aveva raggiunto il tempio del cielo, uno dei più grandiosi che sorgano nella capitale, librandosi per alcuni minuti su di esso.

      Come quello dell’Agricoltura, è difeso da una cinta ombreggiata da filari d’alberi, lauri e pini e si erge sopra una terrazza a gradini di marmo, lanciando ben alti i suoi tetti sovrapposti e la sua larga rotonda adorna di maioliche verniciate e di pilastri azzurri, rossi, scarlatti e gialli con foglioline d’oro.

      – Ammirabile! Stupendo! – esclamava Rokoff.

      – Ed immenso – disse Fedoro.

      – E quello che sorge laggiù è più bello ancora – disse il capitano, che si era collocato presso di loro.

      – È il tempio dell’Agricoltura, è vero capitano?

      – Sì – rispose l’aeronauta. – Vedete anche il piccolo campo sacro, dove una volta l’Imperatore e i principi si recavano, all’epoca dei lavori di primavera, a guidare l’aratro d’avorio e d’oro, invocando le benedizioni del cielo e della terra.

      – Ora non si fa più quella cerimonia? – chiese Rokoff.

      – No, e ciò dopo l’entrata delle truppe franco-inglesi nella capitale, ossia dal 1860. Guardate, il tempio è superbo, degno di questo gran popolo.

      Con una rapida volata lo «Sparviero» lo aveva raggiunto, descrivendo un vasto giro intorno alla colossale costruzione la quale lanciava verso il cielo i suoi tre tetti sovrapposti, coperti di tegole gialle ed azzurre.

      Si tenne qualche istante quasi immobile, onde gli aeronauti potessero meglio contemplare i marmorei scaloni e la selva di pilastri variopinti e coperti di sculture, poi, innalzatosi di duecento metri mosse dritto verso la città imperiale, fugando colla sua presenza le guardie che vegliavano sui bastioni.

      Dalle vie e dalle piazze della Cheng-wai salivano, di quando in quando, dei clamori assordanti mescolati allo strepito di migliaia di gong e di tam-tam e di conche marine e si vedeva la folla precipitarsi verso le muraglie della città tartara.

      – Che abbiano paura che noi andiamo a uccidere l’Imperatore? – chiese Rokoff.

      – Siamo sopra la città inviolabile e hanno ragione di inquietarsi – rispose il capitano.

      – Che ci prendano per mostri?

      – Crederanno lo «Sparviero» un drago sceso dalla luna.

      – Che ci sparino addosso? – chiese Fedoro.

      – Non credo, avendo troppa paura dei draghi – disse il capitano sorridendo. – D’altronde ci è facile metterci fuori di portata, potendo il mio «Sparviero» raggiungere delle altezze incredibili, dove certo non arrivano le palle dei più potenti cannoni. Finché si accontentano di urlare e di battere i loro gong, lasciamoli fare. Ecco i palazzi imperiali. Che cosa ne dite di tanta magnificenza?

      La città tartara od imperiale, è divisa pure in due città ben distinte, da muraglie altissime, tinte di rosso e difese da bastioni e da torri.

      Nella prima abitano i funzionari e i soldati; nella seconda l’imperatore e i principi del sangue, ciambellani, e così via, i quali, tutti insieme, raggiungono la popolazione di una città di terz’ordine.

      Ha quattro porte che corrispondono coi quattro punti cardinali e che nessuno può varcare senza speciale permesso ed è chiamata la città gialla ossia santa.

      Quivi palazzi grandiosi del più puro stile cinese, gallerie immense sostenute da colonne dorate, tetti a punte arcuate con tegole di porcellana, cortili immensi lastricati di marmo bianco e adorni di mostruosi draghi e di chimere di bronzo, giardini meravigliosi, viali ricchi d’ombre, chioschi e padiglioni che sembrano formati di merletti, ponti, canali e laghetti dove si cullano barchette scolturate e ricche di dorature.

      Nel centro sorgono due colline, erette dalla mano dell’uomo, dalle cui cime il possente imperatore può dominare tutta la immensa città che lo circonda. La più alta, chiamata Meician, o Montagna del Carbone, e se si deve credere ad una leggenda popolare, poserebbe su colossali depositi di carbone, accumulati nell’eventualità d’un lungo assedio.

      Anche intorno ai palazzi imperiali e nei giardini, regnava una confusione straordinaria, suscitata dall’improvvisa comparsa del mostruoso uccello. Guardie imperiali, armate di fucili, accorrevano da tutte le parti urlando e facendo muggire le conche di guerra e sulle terrazze e nelle gallerie si vedevano raggrupparsi donne manifestando il loro spavento con gesti disperati. Forse anche l’Imperatore si era degnato di lasciare i suoi appartamenti per vedere quell’uccellaccio di nuova specie, che osava volteggiare sopra i tetti e gli alberi della città inviolabile.

      – Capitano – disse ad un tratto Rokoff, indicandogli un bastione sul quale si erano aggruppati parecchi soldati. – Si preparano a far fuoco contro di noi. Stanno puntando un pezzo d’artiglieria.

      – Sono a milleduecento metri – rispose l’aeronauta con voce tranquilla. – Spareranno male di certo, tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Avete veduto abbastanza la città gialla? Allora possiamo andarcene. Ehi, macchinista?

      – Signore!

      – Saliamo e aumentiamo.

      – Subito, capitano.

      In quell’istante sul bastione si vide una nube di fumo attraversata da un getto di fuoco, poi si udì una detonazione.

      Un sibilo acuto, che aumentava rapidamente, giunse agli orecchi degli aeronauti, poi si perdette in lontananza.

      – Troppo bassa – disse il capitano, senza perdere un atomo della sua calma. – Ero certo che ci avrebbero sbagliati.

      Lo «Sparviero» s’innalzava sbattendo vivamente le sue ali, le quali provocavano


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