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I figli dell'aria. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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frequenti invasioni dei bellicosi tartari.

      La popolazione, vedendo avanzarsi ed ingrandire rapidamente quell’uccello mostruoso, che probabilmente scambiava per un drago fantastico, pronto a divorare uomini, donne e fanciulli e a vomitare fuoco sulle abitazioni, in un momento aveva disertato completamente le piazze e le vie mandando urla di terrore.

      Solamente alcuni drappelli di soldati, costumi azzurri a galloni giallo-aranciati, l’Impero, si erano schierati sulla cima d’un vecchio bastione, aprendo un fuoco violentissimo contro gli aeronauti.

      Udendo le palle sibilare, il capitano aveva dato ordine al macchinista di innalzarsi.

      Due eliche, disposte orizzontalmente ai lati del fuso e che fino allora erano rimaste mascherate, coperte da tele impermeabili, si erano subito poste in movimento, raggiungendo ben presto una velocità talmente grande da non poterle quasi più scorgere.

      Lo «Sparviero», aiutato anche potentemente dalle gigantesche ali che battevano affrettatamente, s’innalzò rapidamente raggiungendo in pochi minuti i millecinquecento metri.

      Qualche palla si udiva ancora sibilare, segno evidente che quei manciù facevano fuoco con armi perfezionate, ma non erano più da temersi, perché l’alluminio del fuso era più che sufficiente per arrestarle.

      – Vorrei dare una lezione a costoro – disse il capitano. – Se non temessi di uccidere delle persone inoffensive, farei vedere a quegli insolenti di quali armi formidabili noi disponiamo.

      – Vorreste gettare loro addosso qualche bomba? – chiese Rokoff.

      Il capitano non rispose. Guardava attentamente un bastione che si trovava al nord della città, difeso da una grossa torre quadrata, sormontata da un tetto doppio e che pareva in parte diroccata.

      – Non vi deve essere nessuno là dentro, – disse – giacché è inservibile, la rovineremo del tutto. Macchinista: arresta la corsa.

      – Avete anche della dinamite a bordo? – chiese Fedoro.

      – Per che cosa farne? Non ho l’aria liquida a mia disposizione? Vale meglio del cotone fulminante e di tutti gli altri esplodenti finora inventati. Ora lo vedrete.

      Il capitano scomparve nell’interno del fuso, passando per un piccolo boccaporto che si apriva dinanzi alla macchina e poco dopo risaliva tenendo in mano un tubo di ferro che da un parte era aperto e che si univa ad un filo attaccato a un rocchetto.

      Lo «Sparviero», trovandosi ormai fuori di tiro, avendo attraversata tutta la cittadella, scendeva in quel momento con una certa rapidità, sorretto solamente dai suoi piani inclinati che funzionavano da paracadute.

      Le ali e le eliche non battevano e non giravano più.

      Il fuso calava proprio sopra la vecchia torre, con un largo ondulamento, facendo fuggire precipitosamente gli abitanti delle ultime case ed i contadini che lavoravano nelle ortaglie.

      Quando giunse a soli cento metri, il capitano abbandonò il tubo, lasciando svolgere rapidamente il filo del rocchetto.

      – Macchinista, innalziamoci – disse, quando vide il cilindro cadere fra le tegole del tetto superiore. – Non è prudente tenersi a così breve distanza. Lo «Sparviero» risaliva rapidamente, mentre il filo continuava a svolgersi. Raggiunse i cinquecento metri, poi i settecento, quindi i mille.

      I soldati manciuri, avendolo veduto abbassarsi, si erano slanciati attraverso le vie della città, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile.

      – Badate! – gridò il capitano a Rokoff e a Fedoro. – Tenetevi stretti. Do fuoco.

      Quasi nel medesimo tempo una spaventosa detonazione rimbombava sotto di essi. Una fiamma immensa squarciò l’aria, lanciando in tutte le direzioni una tempesta di macigni e di rottami.

      Lo «Sparviero», quantunque si trovasse a mille metri, fu violentemente spostato dalla spinta dell’aria e sbalzato innanzi, atterrando di colpo Fedoro e Rokoff, i quali non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla balaustrata. Urla terribili si erano alzate dalla città, urla d’angoscia e di terrore sfuggite da venti e forse da trentamila petti.

      – Ebbene, dov’è la torre e dov’è andato a finire il bastione? – chiese il capitano con voce tranquilla. – Guardate, signor Rokoff, e ditemi se l’aria liquida non vale meglio della dinamite.

      Il cosacco, quantunque ancora stordito dal terribile scoppio, si era curvato sulla balaustrata. Che spaventevole disastro! La torre era scomparsa e al posto dove poco prima si elevava il bastione, si vedeva una buca immensa, come se cento mine fossero scoppiate insieme.

      – Che cosa avete messo in quel tubo? – esclamò, guardando con terrore il capitano.

      – Un semplice pezzo di lana immerso prima in una miscela d’aria liquida e di glicerina; null’altro.

      – E avete ottenuto una simile esplosione!

      – Vi sorprende?

      – Voi allora potreste distruggere in pochi minuti una città intera.

      – Lo credo – rispose il capitano, freddamente.

      – Quale terribile strumento di guerra è il vostro «Sparviero»! Guai se tutte le nazioni dovessero possederne alcuni!

      – Verrà il giorno che ne avranno; allora la guerra sarà finita per sempre, ammenoché non pensino a corazzare le città minacciate. Macchinista a tutta velocità! Andremo a dormire al di là della grande muraglia.

      Lo «Sparviero» aveva ripreso lo slancio muovendo direttamente verso il nord, dove si vedevano delinearsi in lontananza alcune catene di montagne, assai frastagliate.

      Il suolo s’innalzava gradatamente, interrotto da boschetti di giuggioli, che producono una specie di dattero, da cui i cinesi estraggono una bella tinta gialla; da lauri splendidissimi e da lunghe file di alberi del sevo, bellissimi vegetali dal fogliame verde chiaro e cosparse di mazzetti di bacche che sono ricoperte da una sostanza molto grassa dalla quale si estrae una specie di cera assai bianca, che produce una fiamma brillante e che surroga benissimo quella delle api.

      Di quando in quando si vedevano anche delle piantagioni di tabacco, che riesce molto bene nella Cina settentrionale, di cotone che produce un filo splendido adoperato nella fabbricazione del famoso Nanking, e d’indaco verde.

      Graziosi villaggi, seminascosti sul margine dei boschi o delle piantagioni, apparivano bruscamente ed allora era uno scompiglio fra i contadini.

      Gli uomini urlavano, le donne piangevano, i ragazzi fuggivano disordinatamente, nascondendosi fra le piante, ma si rassicuravano presto, perché il terribile mostro alato continuava la sua corsa gareggiando vantaggiosamente cogli aironi che s’alzavano fra le risaie, coi beccaccini, colle oche selvatiche e cogli immensi stuoli di corvi gracchianti.

      Qualche colpo di fucile, sempre inoffensivo, sparato dietro qualche folto cespuglio o presso qualche capanna salutava di quando in quando gli aeronauti. II maldestro bersagliere s’affrettava però a fuggire all’impazzata, per paura che il formidabile drago lo facesse a pezzi col suo rostro.

      Alle sei di sera lo «Sparviero», che s’affrettava sempre, solcando lo spazio con una velocità di trenta miglia all’ora, si librava sopra la grande muraglia cinese.

      Questa gigantesca opera, che per molti secoli fu creduta immaginaria, è una delle più colossali e anche delle più meravigliose, perché si estende ininterrottamente per ben seicento leghe, ossia per duemila miglia, attraverso deserti, a steppe, a montagne e a fiumi dal largo corso, quali l’Hoang-ho, svolgendosi attraverso le più selvagge regioni della Mongolia e del Kuku-noor.

      Il primo imperatore che ne concepì l’idea fu Tsing-chi-hoang-ti, il secondo della dinastia dei Tsin.

      Vedendo succedersi le invasioni dei tartari, i quali ogni anno mettevano a ferro e a fuoco i confini dell’Impero, tutto distruggendo sul loro passaggio, ordinò di chiudere i passi pei quali quei bellicosi predoni entravano in Cina.

      I principi, che soffrivano assai da quelle scorrerie, ne imitarono l’esempio e la grande muraglia sorse, scorrendo attraverso regioni deserte e spingendosi perfino su monti


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