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I pescatori di balene. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

I pescatori di balene - Emilio Salgari


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valgono una palla!

      – Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d’olio.

      – E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup.

      – Che ce ne siano degli altri?

      – Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi.

      – E ve n’eran molti in quest’isola?

      – Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento.

      – Che strage!

      – E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l’equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore.

      – In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio.

      – Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari.

      – E come faremo a trasportare a bordo questo bestione?

      – Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l’escursione Koninson.

      – I due cacciatori si misero a costeggiare l’isola facendo un’ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani.

      Alle 6, carichi come muli, s’imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.

      VI. IL DISINCAGLIAMENTO

      La mattina del 12 settembre, giorno della grande marea, il «Danebrog» era pronto a riprendere il mare. La falla era stata accuratamente chiusa dal carpentiere, e tanto bene da non lasciare penetrare la più piccola goccia d’acqua e da poter sopportare gli urti dei ghiacci. Non restava da farsi che il disincagliamento, operazione difficile ma sul cui esito nessun uomo dell’equipaggio dubitava.

      Mancando quattro sole ore alla massima altezza del flusso, i preparativi furono alacremente spinti innanzi. Per il mezzodì tutto doveva essere pronto e ogni uomo al suo posto, onde non correre il pericolo di far riuscire vani gli sforzi e dover attendere parecchi altri giorni.

      Il capitano innanzi tutto fece trasportare tutto il carico della stiva a poppa per rendere più leggera la prua e quindi più facile il disincagliamento. Dopo di che fece imbarcare due delle maggiori ancore che furono gettate a sessanta braccia dalla poppa, su di un fondo resistente, e fermare le gomene ai due molinelli di bordo, mentre il tenente faceva preparare le vele, per allontanarsi subito, disincagliata la nave, dal pericoloso bacino che gli scogli chiudevano quasi interamente.

      Alle 10 tutto era pronto a bordo del «Danebrog» e tutti gli uomini ai loro posti.

      La marea cresceva con qualche rapidità, coprendo le nere degli scoglietti e producendo sopra questi un forte gorgoglio. Ben presto quasi tutte le rocce scomparvero e a prua della nave si udì un leggero fremito seguito tosto da alcuni scricchiolii.

      – Pronti! – gridò il capitano.

      I marinai si curvarono sulle aspe dei molinelli e attesero con trepidazione. Più di un viso era diventato pallido per l’emozione.

      I fremiti e gli scricchiolii continuavano, anzi diventavano più forti man mano che il flusso montava.

      Alle 12,25 il capitano, che aveva in mano un cronometro, gridò con voce tonante:

      – Forza, ragazzi! Forza!

      I marinai diedero un colpo violento alle aspe che si curvarono. Le due gomene di poppa si tesero senza che le ancore si movessero, ma la nave, quantunque continuasse a scricchiolare, non si mosse. Il capitano impallidì e si sentì bagnare la fronte di un freddo sudore.

      – Forza, forza! – ripetè.

      Il tenente si precipitò in aiuto dei marinai che facevano sforzi disperati. Passarono alcuni secondi che parvero lunghi come tanti minuti poi il «Danebrog» scivolò bruscamente sulla sabbia retrocedendo con notevole velocità. Il capitano, che era subito balzato a prua, lasciò andare a picco un ancorotto, mentre il tenente correva alla ribolla del timone.

      Il «Danebrog» percorse cinquanta braccia, poi si arrestò di colpo a meno di una gomena dagli scogli.

      Un urrah fragoroso irruppe da tutti i petti. La nave baleniera era ormai salva.

      Il tenente si fece incontro al capitano che era diventato raggiante di gioia e gli strinse vigorosamente la destra.

      – Dio ci protegge – gli disse.

      – Bisogna crederlo, signor Hostrup, – rispose Weimar. – Ho tremato assai per il mio «Danebrog», che amo come se fosse un pezzo della mia carne. Se l’avessi perduto non mi sarei più consolato.

      – Ed ora andiamo?….

      – Sulle coste della Giorgia, tenente. Faremo una rapida campagna, poi torneremo a sud.

      – Con un carico completo, speriamo.

      – Sì, tenente. Il cuore mi dice che vinceremo la scommessa.

      – Dio lo voglia, capitano.

      Non essendo prudente fermarsi fra quegli scogli, Weimar fece calare in mare le baleniere e rimorchiare il «Danebrog» al largo.

      Alle 2 del pomeriggio, dopo aver visitata la riparazione che fu trovata perfettamente asciutta, i marinai spiegavano le vele e la nave si rimetteva in cammino dirigendosi verso il capo di Galles, che forma l’estrema punta, verso occidente, della costa americana.

      Il mare era quasi tranquillo, di un verde superbo e affatto deserto. Solamente delle procellarie e dei gabbiani volteggiavano sopra le larghe ondate, mandando di quando in quando delle rauche strida.

      Un vento fresco, ma che soffiava irregolarmente, ora da sud ed ora da sud-sud-est, gonfiava le vele della nave, la quale scivolava con celerità discreta lasciandosi a poppa un solco spumeggiante.

      – Signor Hostrup, – disse Koninson avvicinandosi al flemmatico comandante che guardava attentamente le onde, appoggiato alla murata di tribordo – impiegheremo molto a raggiungere la costa americana?

      – Prima di mezzanotte gireremo il capo di Galles, fiociniere.

      – Ditemi, tenente, è vero che questo stretto ha una profondità spaventevole?

      – Sì e tanto che se una fregata affondasse, i suoi alberetti rimarrebbero fuori dall’acqua. Se vuoi saperlo, la sua spaventevole profondità non supera i diciannove metri.

      – Soli?

      – Soli, Koninson, nè uno più nè uno di meno.

      – E sono molti anni che fu scoperto questo stretto?

      – Non troppi, Koninson. Prima del 1741 lo si ignorava, anzi molti credevano che l’America fosse unita all’Asia.

      – E chi lo scoperse?

      – Vito Behring

      – Un russo?

      – Per i russi sì, ma per gli altri no, poichè Bhering è nato in Danimarca come ci sono nato io e come ci sei nato tu.

      – Ah! Un nostro compatriota! Deve essere stato un grande marinaio.

      – Se non lo fosse stato, non si sarebbe spinto fin qui, a quel tempi in cui si ignorava dove erano le coste, le isole, gli scogli, i banchi e quali le correnti.

      – Aveva intrapreso la spedizione per suo conto?

      – No, per incarico dell’imperatrice delle Russie, Caterina. E ciò accadeva nel 1728, ma Behring volle prima esplorare le coste siberiane e accertarsi se il Giappone era unito o staccato dalla penisola di Kamtsciatka. Dapprima


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