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Il Bramino dell'Assam. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Il Bramino dell'Assam - Emilio Salgari


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e l’isola di Mòmpracem». «Per cercare che cosa, nelle Sunderbunds? Dei thugs? Li abbiamo distrutti».

      «Hum!…» fece il maharatto. «Ne abbiamo ammazzati molti dentro le gallerie sotterranee, che più nessuno avrà vuotate; che siano morti poi tutti, non so dire, signor Yanez».

      «Corpo di Giove!…» esclamò il portoghese, lanciando via la sigaretta per prenderne subito un’altra. «Tu mi metti una pulce nell’orecchio destro». «Dite pure». «Vorresti forse dire che Sindhia ha cercato un appoggio negli strangolatori?»

      «Tutto è possibile in questo paese, signor Yanez» disse Kammamuri, il quale appariva assai preoccupato.

      Il principe rimase un momento silenzioso, fumando con maggior furia, poi disse:

      «Non credo: qui si tratta di avvelenamenti e non di strangolamenti. I thugs in questo affare non devono entrarci affatto, e poi sono ormai dispersi e perseguitati dalla polizia inglese come cani idrofobi, e fucilati senza processo. Qui c’entrano i dacoiti, ne sono sicuro. Tu che sei indiano, dimmi un po’ chi sono quei personaggi».

      «Valgono i thugs, signor Yanez» rispose Kammamuri. «Forse sono più pericolosi ancora». «Delle canaglie?»

      «E che canaglie!… Costituiscono delle vere bande di ladri e di briganti, astuti, audacissimi, più lesti dei cobra-capello a propinare il veleno alle vittime. Agiscono per lo più nel Bundelkund, tuttavia non mi stupirei che un manipolo di quei furfanti fosse stato assoldato da Sindhia».

      «Sindhia!…» gridò Yanez, lanciando via la seconda sigaretta e corrugando la fronte. «Tu dunque credi che sia fuggito dal manicomio di Calcutta, dove Surama l’aveva internato con un appannaggio più che principesco? Che voglia riconquistare il suo impero? Ah!… Non sono uomo da lasciar portar via la corona che brilla sulla bella fronte di mia moglie!»

      «Per la morte di Visnù!… Non abbiamo ripresa Mòmpracem, malgrado tutti gli incrociatori inglesi? Ci vorrebbero però, signor Yanez, alla vostra corte, una cinquantina di quei terribili ed incorruttibili malesi».

      «E perché non li faremo venire?» disse Yanez, il quale era diventato assai pensieroso. «Fra Calcutta e Labuan oggi vi è un buon cavo sottomarino: un dispaccio potrà al massimo impiegare un’ora, i malesi a giungere qui ci metteranno appena quindici giorni, poiché ormai Sandokan, se conserva i suoi prahos, ha dato la preferenza al vapore. Per Giove!… Sono più inquieto di quello che tu creda. I dacoiti nel mio impero!… Tanti ne prenderò e tanti ne farò fucilare. Fucilare!… Ma che!… Li farò legare alla bocca dei cannoni e manderò in aria i loro stracci di carne insieme alle ossa». «Signor Yanez, diventate feroce come la Tigre della Malesia!…»

      «Devo difendere mia moglie e mio figlio» rispose il portoghese, con voce grave. «Non risparmierò nessuna punizione contro gli avvelenatori. Tre ministri in un mese!… Fulmini di Giove, sono troppi!… Come sono vivo io?»

      «Non vi hanno avvelenato, perché hanno troppa paura di voi, e poi sapete che Tremal-Naik sorveglia strettamente».

      «Un po’ di veleno di cobra-capello lasciato cadere dentro una bottiglia od in una gelatiera sarebbe più che bastato per togliermi per sempre il vizio di fumare. Per Giove!… Voglio ben vedere dentro a questa faccenda. Se sono i dacoiti che agiscono per conto di Sindhia, non avranno quartiere. Consumeremo della polvere a fracassare dei corpi umani, indegni di vivere. Prima i thugs, ora i dacoiti!… Bella guerra!… Ciò mi divertirà più che le cacce ai bufali ed alle tigri. Cornac, se puoi, affretta».

      «Sì, Altezza. Incito Sahur, ma la foresta è folta ed il carro troppo enorme. La prima traccia è stata perduta o meglio è stata rovinata dagli jungli-kudpa». «Dai bisonti, vuoi dire». «Sì, Altezza». «Giungeremo in città a notte fatta».

      «Farò il possibile, usciti dalla foresta, di spingere Sahur, se non di corsa almeno di buon passo» rispose il cornac.

      L’enorme carro procedeva scricchiolando ed oscillando quasi fosse diventato una nave investita da un buon rollio. Sotto gli strappi violenti dell’elefante, costretto ad aprirsi una nuova strada fra tutti quei folti vegetali, le travi, quantunque bene arpionate, minacciavano di sollevarsi e di sfasciare tutto il bastione roteante. Annottava rapidamente sotto la boscaglia ed anche al di là della immensa cupola di foglie, la luce andava spegnendosi fra gli ultimi guizzi d’oro.

      I vampiri, che sono così numerosi nell’India e specialmente nell’Assam, uscivano a frotte dai tronchi cariati che servivano loro d’asilo durante il giorno, e volteggiavano intorno al carro spiegando le loro grandi ali che misurano più d’un metro.

      Gran brutte bestie quei flying-fox, come li hanno chiamati gli inglesi, poiché rassomigliano a vere volpi, col muso egualmente appuntito, i denti aguzzi e solidi, ed il pelame assai folto che tira al rossiccio. Quantunque quegli enormi pipistrelli li abbiano chiamati, oltre che volpi volanti, anche vampiri, sono assolutamente inoffensivi. Si accontentano di devastare i frutteti, ma di lasciare i coltivatori, addormentati per lo più dinanzi alle loro capanne di paglia e di fango, tranquillissimi; e non interrompono il loro sonno.

      È vero che qualche volta si unisce a loro un pipistrello di più modeste proporzioni, il quale tiene più al sangue umano che ai profumati banani. Nemmeno questo però è pericoloso, quantunque gli indiani siano convinti che in una sola notte possa dissanguare completamente un uomo sorpreso nel sonno od una vacca.

      Si accontentano di poche gocce, poi se ne vanno, e quelle leggère cavate di sangue, per uomini ed animali che vivono sotto un clima ardentissimo, sono quasi più utili che nocive.

      Anche i bighama, i piccoli lupi indiani, che vanno in grosse bande, e che non sono però affatto pericolosi per gli uomini, cominciavano a lasciare i loro nascondigli, annunciandosi con ululati che finivano in una nota acuta straziante. Dovevano aver già fiutate le gigantesche prede che giacevano inerti in mezzo alla foresta, ed accorrevano da tutte le parti, a corsa sfrenata, per paura di giungere troppo tardi al banchetto.

      Yanez, tanto per passare il tempo, o meglio per ingannare il suo malumore, ne fucilò cinque o sei che avevano avuto l’audacia di galoppare a fianco del carro, facendo scappare, col rombo della sua grossa carabina che sembrava una mezza spingarda, tutti i pipistrelli volteggianti sotto le piante. Alle foreste di tara e di latanieri, successe ben presto un’altra magnifica foresta dove l’elefante poteva inoltrarsi senza grandi sforzi. Era formata tutta di palas, piante che non crescono addossate le une alle altre, quantunque i loro tronchi nodosi, coronati da un fitto padiglione di foglie vellutate, siano sempre collegati fra di loro da ammassi di liane che un buon colpo di proboscide può facilmente abbattere. Sahur si è messo in corsa, minacciando di sfasciare l’enorme carro, sicché il cornac è costretto a moderare il suo ardore, perché non succeda una disgrazia al principe ed ai suoi cacciatori, che si sballottano sui loro soffici materassi.

      Anche la foresta di palas è attraversata ed apparve una vasta pianura dove giganteggiano i kalam, spingendosi perfino a quindici piedi d’altezza, in mezzo ai quali volano bande di magnifici pavoni, volatili rispettati da tutti perché per gli indiani rappresentano la dea Sarasvati che protegge le nascite ed i matrimoni. All’estremità di quella pianura, quasi tutta invasa da male erbe e con pochissime risaie e piantagioni di senapa, all’ultimo raggio di luce compare Gahuati, la capitale dell’Assam, che racchiude dentro i suoi vecchi eppure ancora saldi bastioni, più di trecentomila anime.

      «Finalmente» disse Yanez, respirando a lungo. «Ora, cornac, puoi lanciare l’elefante, e se passerà sui terreni coltivati pagheremo i danni ai poveri agricoltori». «Il carro può sfasciarsi, Altezza» rispose il conduttore. «Non preoccupartene. Cadremo insieme ai materassi».

      Carro ed elefante ripartono con un fragore infernale, aprendosi un immenso solco fra le altissime erbe, e dopo una mezz’ora, senza aver troppo danneggiato i pochi terreni coltivati, entrano nella capitale per una delle venti porte. Un drappello di soldati che indossa le pittoresche divise dei sipai, scintillanti d’argento, presentano le armi a Yanez che risponde bonariamente con un: «Buonanotte, ragazzi».

      Subito otto cavalli, bardati alla turca, colle staffe corte e le gualdrappe fiammanti, vengono fatti uscire da una casamatta. Yanez ed i suoi uomini lasciano il carro, montano in sella e partono ventre a terra, gridando a


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