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Il Corsaro Nero. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Il Corsaro Nero - Emilio Salgari


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l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un pò arricciata.

      Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.

      La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.

      I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:

      – Il Corsaro Nero!

      – Chi siete voi e da dove venite? – chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.

      – Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, – rispose Carmaux.

      – E venite?

      – Da Maracaybo.

      – Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?

      – Sí, comandante.

      – A qual legno appartenevate?

      – A quello del Corsaro Rosso. —

      Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.

      – Al legno di mio fratello, – disse poi, con un tremito nella voce.

      Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.

      Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:

      – Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.

      – Sí, comandante, – rispose l’altro. – Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.

      Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:

      – Ora parlerai.

      – Sono ai vostri ordini, comandante. -

      Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.

      Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.

      Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:

      – Me l’hanno ucciso, è vero?

      – Chi?

      – Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.

      – Sí, comandante, – rispose Carmaux, con un sospiro. – Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. —

      Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.

      Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.

      Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.

      Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:

      – Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?

      – Appiccato, signore.

      – Sei certo di questo?

      – L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.

      – Quando l’hanno ucciso?

      – Quest’oggi, dopo il mezzodí.

      – È morto?…

      – Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi…

      – Continua.

      – Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.

      – A quel cane di Wan Guld?

      – Sí, al duca fiammingo.

      – Ancora lui! Sempre lui!… Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!

      – Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.

      – Ma mi rimane la vendetta!… – gridò il filibustiere con voce terribile. – No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!… Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?.

      – Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.

      Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo.Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo.All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma.Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci.Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.

      – E mio fratello era del numero?

      – Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.

      – E


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