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Il figlio del Corsaro Rosso. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Il figlio del Corsaro Rosso - Emilio Salgari


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appreso, strada facendo, che erano stati condotti a Santiago ed appiccati, trucidarono gli informatori che erano spagnuoli, poi assalirono furiosamente la città, prendendola d’assalto e massacrando quanti uomini si trovavano rinchiusi fra le mura.

      Non mancavano però gli spagnuoli di rifarsi di tratto in tratto delle sconfitte che subivano, ma era ben difficile di snidare, come essi desideravano, tutti i bucanieri che scorazzavano per le foreste dell’isola.

      Col tempo però vi riuscirono, distruggendo tutti i tori e tutti i porci selvatici che infestavano le foreste e le paludi, e quel colpo fu cosí fatale ai bucanieri, da deciderli a rivolgersi al mare per trovare nuovi alimenti e alla terra per ottenere raccolti da trafficare.

      Gli spagnuoli però si erano ingannati sulle loro speranze, perché i bucanieri, da cacciatori di terra si erano trasformati in scorridori del mare, diventando quei terribili filibustieri che dovevano recare tanti danni alle colonie spagnuole del golfo del Messico e dell’Oceano Pacifico.

      .........

      Il bucaniere, come abbiamo detto, udendo le parole del figlio del Corsaro Rosso, aveva lasciato cadere l’archibugio e si era fatto innanzi, col cappellaccio in mano, salutando rispettosamente con un profondo inchino.

      – Signore, – disse. – Che cosa desiderate da me? Sarebbe per me un grandissimo onore poter essere utile in qualche cosa al nipote del grande Corsaro Nero.

      – Non vi chiedo che un asilo sicuro per riposarmi qualche ora ed una colazione, se è possibile averla, – rispose il conte.

      – Io vi offrirò delle bistecche quante vorrete ed una superba lingua di bue, – rispose il bucaniere. – Tengo in serbo sempre qualche bottiglia di aguardiente per le visite inaspettate e sarò ben felice di offrirvela.

      – Buttafuoco – rispose il bucaniere sorridendo.

      – Un nome di battaglia, non è vero?

      – Il mio l’ho dimenticato – disse il cacciatore, corrugando la fronte. – Varcando l’Oceano, perdiamo i nostri nomi, ma vi posso dire che ero figlio di una buona famiglia della Linguadoca. Che cosa volete? La gioventú talvolta fa commettere delle cattive azioni… Orsú, non parliamo di questo. È un mio segreto.

      – Che io non desidero affatto conoscere – rispose il conte.

      Il bucaniere si passò tre o quattro volte la mano callosa e macchiata di sangue sulla fronte, come se volesse scacciare lontani e dolorosi ricordi, poi disse:

      – Mi avete domandato un ricovero ed una colazione, ed io sarò orgoglioso di offrire l’uno e l’altra al nipote del grande corsaro.

      Accostò una mano alle labbra, si mise due dita in bocca e mandò un lungo fischio.

      Pochi momenti dopo un giovanotto di venti o ventidue anni, biondo, magro, con gli occhi azzurri, vestito come il bucaniere, accompagnato da sette od otto grossi cani, uscí dalla foresta.

      – Leva la pelle a questa bestia – gli disse ruvidamente Buttafuoco – e portaci al piú presto la lingua e delle costolette. Potranno servire per questa sera.

      Poi, volgendosi verso il corsaro con una gentilezza strana in un uomo di apparenza cosí rozza, disse:

      – Signore, seguitemi. La mia povera capanna e la mia misera dispensa sono a vostra disposizione.

      – Non vi chiedo di piú – rispose il conte.

      Il bucaniere raccolse il suo grosso archibugio e si mise in cammino, osservando attentamente le macchie, forse piú per abitudine che per altro, poiché i cani non davano alcun segno di inquietudine.

      – E il bufalo che avete ucciso, lo lasciate là? – chiese ad un certo momento il conte.

      – Il mio amico non dev’essere lontano – rispose il bucaniere. Incaricherò lui di scorticarlo e di togliergli le parti migliori.

      – E il resto?

      – Lo lasciamo ai serpenti e agli avvoltoi, signore, quello che a noi importa sono le pelli che si vendono vantaggiosamente a Porto Bayada agli inglesi o ai francesi che vi approdano in buon numero ogni sei mesi.

      – Senza venire disturbati dagli spagnuoli?

      – Oh! guai se ci lasciamo prendere! Ma noi siamo furbi, e poi siamo protetti dai filibustieri della Tortue, nostri buoni alleati.

      – Avete conoscenti alla Tortue?

      – Molti, signor conte.

      – Quando vi siete stato?

      – Appena tre mesi fa.

      – Grogner e Davis si trovano ancora colà? Ho delle lettere di raccomandazione per loro e anche per Tusley. Sono i filibustieri piú noti al giorno d’oggi, non è vero?

      – Sí, signor conte; ma dovreste correr molto, prima di presentargliele.

      – Perché?

      – Perché in questo momento lavorano sul continente o, meglio, sull’istmo di Panama, verso il Pacifico. Le loro ultime notizie, recate da un gruppo di filibustieri, sono giunte dall’isola di San Giovanni. Pare che si siano stabiliti colà per dare la caccia ai galeoni che il Perú manda di quando in quando a Panama.

      – Sicché sarò costretto ad attraversare l’istmo se vorrò trovarli? disse il signor di Ventimiglia, il quale sembrava non troppo lieto di quelle risposte.

      – Capitano, – disse Mendoza, il quale si era accorto del malumore del corsaro – Pueblo-Viejo si trova sull’istmo e non potremmo giungervi con la nostra fregata. Visiteremo quella graziosa città per andare a stringer la mano al marchese di Montelimar; poi andremo a cercare i famosi filibustieri, senza dei quali nulla potreste fare.

      – Tu hai sempre ragione, amico – rispose il conte rasserenandosi un poco.

      – Ecco la mia capanna – disse in quel momento il bucaniere, mentre i cani si slanciavano innanzi, latrando festosamente.

      Sotto un gruppo di splendide e altissime palme e di cavoli palmisti, sorgeva una miserabile abitazione formata da rami malamente intrecciati e da poche pertiche, con alcune pelli gettate al di sopra per riparare alla meglio il suo proprietario e il suo servo dagli acquazzoni diluviali che, di quando in quando, si rovesciavano sull’isola con furia inaudita.

      Sotto una piccola tettoia, innalzata a pochi metri di distanza, si trovava la cucina che consisteva in tre o quattro sassi, che dovevano servire da camino, da un paio di spiedi e da un vaso di terra pieno d’acqua.

      Tutto all’intorno vi erano pelli di bufali stese a seccare e ammassi di carne affumicata e seccata, coperti da gigantesche foglie di banano.

      – Ecco il mio palazzo! – disse il bucaniere ridendo. – Avrebbe bisogno di molte riparazioni, ma non trovo mai il tempo di diventare un boscaiuolo. Entrate, signor conte.

      L’interno della catapecchia non valeva piú dell’esterno. Uno strato di foglie secche serviva da letto, ed era tutto il mobilio di quel cacciatore, il quale forse un tempo era abituato al lusso raffinato della capitale della Francia.

      Appesi ai pali vi erano dei coltellacci imbrattati di sangue fino alle impugnature; dei corni immensi contenenti probabilmente della polvere da sparo; dei sacchetti di cuoio per il piombo e delle zucche che servivano da fiasche.

      – Un’abitazione da indiani! – disse il conte.

      – Peggio, signore! – rispose il bucaniere. – Quei selvaggi sanno fabbricarsi delle capanne assai piú comode delle nostre… Accomodatevi, signori, mentre io vi preparo la colazione. Ecco il mio arruolato che giunge ben carico.

      Il giovane, lordo di sangue dal viso alle scarpe, avanzava penosamente, portando sulle spalle dei lunghi pezzi di carne che aveva allora levati dal bufalo, ed una magnifica lingua.

      – Spicciati, Cortal – disse il bucaniere ruvidamente. – Abbiamo delle persone a pranzo e offriremo loro un bell’arrosto di lingua. Vi è del maiale freddo avanzato da ieri?

      – Sí – rispose il giovanotto. – E la pelle


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