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Il re del mare. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Il re del mare - Emilio Salgari


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tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche.

      – Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, – disse Sambigliong.

      – Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l’audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse.

      – Palle d’acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez.

      – Falle portare in coperta e da’ ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati?

      – Anche quelli.

      – Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all’assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota!

      Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente.

      – Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche?

      – Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, – rispose il malese.

      – Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità?

      – Non credo, padrone.

      – Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale.

      – Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po’ risentito:

      – Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone.

      – Vedremo in seguito, – rispose Yanez. – E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

      2. Il pellegrino della Mecca

      Se quel veliero appariva bellissimo all’esterno, tale da poter gareggiare coi più splendidi yachts di quell’epoca, l’interno, specialmente il quadro di poppa, era addirittura sfarzoso.

      La sala centrale sopratutto, che serviva da pranzo e da ricevimento insieme, era ricchissima, con scaffali, tavola e sedie in mogano con intarsi di madreperla e filettature d’oro, con tappeti persiani in terra e arazzi indiani alle pareti e tende di seta rosa con frangie d’argento alle piccole finestre.

      Una grande lampada, che pareva di Venezia, pendeva dal soffitto e tutto all’intorno, negli spazi nudi, si vedevano splendide collezioni d’armi di tutti i paesi.

      Coricato su un divano di velluto verde, fasciato dal capo alle piante e avvolto in una grossa coperta di lana bianca, stava l’intendente di Tremal-Naik già medicato e rinforzato da qualche buon cordiale.

      – Sono cessati i dolori, mio bravo Tangusa? – gli rispose Yanez.

      – Kickatany possiede degli unguenti miracolosi, – rispose il ferito. – Mi ha spalmato tutto il corpo e ora mi sento molto meglio di prima.

      – Raccontami come è successa la cosa. Innanzi tutto, è sempre al kampong di Pangutaran, l’amico Tremal-Naik?

      – Sì, signor Yanez, e quando l’ho lasciato stava fortificandosi per resistere ai dayaki fino al vostro arrivo. Quando è giunto a Mompracem il messo che vi abbiamo spedito?

      – Tre giorni or sono e come vedi noi non abbiamo perduto tempo ad accorrere col nostro miglior legno.

      – Che cosa pensa la Tigre della Malesia di questa improvvisa insurrezione dei dayaki, che fino a tre settimane or sono guardavano il mio padrone come il loro buon genio?

      – Abbiamo fatto insieme tante congetture e forse non abbiamo indovinato il vero motivo che ha deciso i dayaki a prendere le armi e a distruggere le fattorie che erano costate tante fatiche a Tremal-Naik. Sei anni di lavoro e più di centomila rupie spese forse inutilmente! Avete qualche sospetto?

      – Ecco, signore, quanto abbiamo potuto sapere. Un mese fa e probabilmente anche prima, è sbarcato su queste coste un uomo che non sembra appartenere nè alla razza malese, nè a quella bornese, che si diceva fervente mussulmano e portava in testa il turbante verde come tutti coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Voi sapete, signore, che i dayaki di questa parte dell’isola non adorano i geni dei boschi, nè gli spiriti buoni e cattivi come i loro confratelli del sud e che sono invece mussulmani, a loro modo s’intende e non meno fanatici di quelli dell’India centrale. Che cosa abbia dato ad intendere quell’uomo a questi selvaggi, nè io nè il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all’autorità del signor Tremal-Naik.

      – Ma che istoria mi racconti tu! – esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa.

      – Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto.

      – L’uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie…

      – Anche contro il mio padrone e vogliono la sua testa, signor Yanez.

      Il portoghese era diventato pallido.

      – Chi potrà essere quel pellegrino? Quale misterioso motivo lo spinge contro Tremal-Naik? L’hai visto tu?

      – Sì, mentre scappavo dalle mani dei dayaki.

      – È giovane, vecchio…

      – Vecchio, signore, alto di statura e magrissimo, un tipo da vero pellegrino che ha fame e sete. E vi è di più ancora che aggrava il mistero, – aggiunse il meticcio. – Mi hanno detto che due settimane or sono è giunta qui una nave a vapore che portava la bandiera inglese e che il pellegrino ha avuto un lungo colloquio con quel comandante.

      – È partita subito quella nave?

      – La mattina seguente ed ho il sospetto che, durante la notte, abbia sbarcato delle armi, perchè ora non pochi dayaki posseggono dei moschetti e anche delle pistole, mentre prima non avevano che delle cerbottane e delle sciabole.

      – Che gli inglesi c’entrino in tutta questa faccenda? – si domandò Yanez, che appariva molto preoccupato.

      – Possibile, signor Yanez!

      – Sai la voce che corre a Labuan? Che il governo inglese abbia intenzione di occupare la nostra isola di Mompracem col pretesto che noi costituiamo un pericolo costante per la sua colonia e di mandarci a occupare qualche altra terra più lontana.

      – Gli inglesi che devono a voi tanta riconoscenza, per averli sbarazzati dei thugs che infestavano l’India!

      – Mio caro, credi tu che un leopardo possa avere della riconoscenza verso una scimmia, supponiamo, che l’ha sbarazzato degli insetti che lo tormentavano?

      – No, signore, quei carnivori non hanno quel sentimento.

      – E non ne avrà nemmeno il governo inglese che viene chiamato il leopardo dell’Europa.

      – E voi vi lascerete cacciare da Mompracem?

      Un sorriso comparve sulle labbra di Yanez. Accese una sigaretta, aspirò due o tre boccate di fumo, poi disse con voce calma:

      – Non sarebbe già la prima volta che le tigri di Mompracem si mettono in guerra col leopardo inglese. Un giorno hanno tremato e Labuan ha corso il pericolo di vedere i suoi coloni divorati da noi o cacciati in acqua. Non ci lasceremo nè sorprendere, nè sopraffare.

      – Sandokan ha mandato dei suoi prahos a Tiga ad arruolare uomini? – chiese il meticcio.

      – Che non varranno meno per coraggio, delle ultime tigri di Mompracem – rispose Yanez. – L’Inghilterra ci vuole scacciare dalla nostra isola, che da trent’anni occupiamo? Si provi e noi metteremo la Malesia intera in fiamme e daremo battaglia, senza quartiere, all’insaziabile


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