La vita italiana nel Trecento. VariousЧитать онлайн книгу.
di mostrarsi benefico, e di amicarsela provvedendo largamente ai bisogni pubblici. Ma per tali spese, non che pel fasto della sua corte e per lo paghe delle sue milizie, gli occorrono denari; procurerà di non aumentare le gravezze e finchè può lascerà le cose come le ha trovate, ma penserà ad impinguare l'erario, sia colla meditata spoliazione di un dovizioso cittadino e magari d'un proprio ministro arricchito, sia mediante qualche impresa fortunata o qualche buona condotta militare; nè è raro il caso che un signorotto si metta per un certo tempo agli stipendi d'un altro signore o d'un Comune.
Sospetto, crudeltà e cupidigia sono pertanto i vizi ordinari del signore, che quasi per necessità è costretto a farsi tiranno. E niuno meglio di Dante che nel suo esiglio dovette pur troppo frequentare le corti, e
Scender e salir per l'altrui scale,
esprime lo sdegno dei galantuomini contro coloro
che dier nel sangue e nell'aver di piglio;
e ne fa vendetta cacciandoli all'inferno dentro al sangue bollente.
Tutti ricordate come nella famosa imprecazione alla serva Italia in sul principiar del 300, egli attesti:
Che le terre d'Italia tutte piene
Son di tiranni ed un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Ma c'è un altro passo della sua operetta latina sulla volgare eloquenza, dove, dopo aver esaltato il valore e la gentilezza della casa di Svevia e specialmente di Federigo II e di Manfredi, vi contrappone l'abbietta volgarità e la superbia plebea dei tiranni contemporanei; e con bizzarra fantasia finge che facciano tutti insieme un diabolico concerto musicale per chiamare a raccolta i più scellerati uomini del mondo. Racha, racha! incomincia egli, usando una parola evangelica, come a dire: Ohibò, vitupero! E poi prosegue: Che mai suona ora la tromba dell'ultimo Federigo (d'Aragona)? Che la campanella di Carlo II (d'Angiò)? Che il corno dei potenti marchesi Giovanni (di Monferrato) e Azzo (d'Este)? Che i pifferi degli altri signori? Qual voce n'esce salvo che questa: Venite carnefici! venite frodatori! venite predoni!
Così li bollava il gran giustiziere del medioevo; ma non bisogna credere che tutti i signori fossero scellerati volgari. Pronti ad ogni delitto erano i più tra loro: non i più peraltro facevano il male senza qualche ragione politica, ed unicamente per isfogo di basse e brutali passioni. La sottile arte di stato che il Machiavelli vide praticata in sul finire del 400 e in sul principiare del 500, e che egli ridusse in regole scientifiche nel libro del Principe, erasi andata formando appunto nei due secoli precedenti; nè altrimenti sarebbe potuta giungere d'un tratto a sì alto grado di odiosa perfezione.
VII
Consapevole della propria illegittimità, il nuovo Signore s'industria ad avvalorare la sua autorità con un diploma d'investitura imperiale o pontificia, che paga anche a caro prezzo. Ma i titoli che si comprano, allora come ora, si sa appunto quanto valgono, non più e forse meno del costo. Dopo la rovina degli Svevi la maestà dell'impero andò sempre declinando; invocati pacificatori quando stavan lontani, i Cesari germanici, ogni qualvolta calarono in Italia tra il 1268 e il 1400 fecero mostra d'impotenza; se uno almeno, Arrigo VII, vi morì sconfitto ma compianto (e le lodi di Dante, di Dino Compagni, di Cino da Pistoia, di Sennuccio del Bene, di Albertino Mussatto onorano tuttavia la sua memoria), gli altri due, Ludovico il Bavaro e Carlo IV di Boemia, se ne partirono svillaneggiati e derisi, dopo aver operato più da mercanti che da sovrani.
Le beffarde querele di Franco Sacchetti a papa Urbano V e a Carlo IV, quando passaron da Firenze nel 1365, poi le invettive anche più fiere di Fazio degli Uberti contro l'istesso Carlo e gli altri lurchi moderni germani omai immeritevoli di custodire l'augello imperiale, essi che d'aquila un allocco n'hanno fatto, per tacere dei giudizi del Villani e degli ondeggiamenti e dei disinganni del Petrarca, mostrano come, durante quel periodo, si andasse perdendo, tra gli Italiani, la fede negli antichi ideali politici; e più d'uno cominciava forse a pensare ciò che scriverà ai primi del 500 Francesco Vettori che “l'investitura data da un uomo che vive in Germania, e che d'imperatore non ha che il titolo, non basta a fare un villano vero signore di una città„.
I signori invero, tuttochè si procaccino pergamene, fanno assegnamento più che altro sul proprio valore, e non meno sull'ingegno che sulla forza. Di tanto cresce l'importanza del pensiero, di quanto scema la riverenza verso le due grandi autorità, fonti del diritto pubblico universale, il Papato e l'Impero romano germanico. Mentre nei primi secoli del medioevo predominano le consorterie, le corporazioni, le scuole e le arti, onde parecchi monumenti, così d'architettura come di legislazione, rimangono anonimi e collettivi, invece coll'istituzione delle signorie emergono e campeggiano gli individui. Rarissimi sono i Signori che non abbiano in pregio la coltura; anzi, amando modellarsi su Federigo II (il quale in molte parti aveva precorso al moderno concetto dello Stato), lo imitano anche nel compor versi d'amore o d'argomento politico e morale. E pur si leggono nelle raccolte antiche o moderne rime di Guido da Polenta, di Castruccio Castracani e di Arrigo suo figliuolo, di un Bruzzi figlio naturale di Luchino Visconti, di un Malatesta dei Malatesta di Rimini, signore di Pesaro, di Marsilio dei Carraresi di Padova, di Roberto dei Guidi del Casentino, conte di Battifolle, il quale scambiò col Petrarca epistole latine e un sonetto volgare. Similmente si compiacevano di accogliere in corte poeti e dottori; e, se taluno, rozzo e altezzoso, trattava i poeti alla pari de' giullari e dei buffoni, molti invece ne facevano gran conto e se ne giovavano per commissioni e ambascerie. Così Franceschino Malaspina, marchese della Lunigiana, incaricò Dante di conchiudere una pace, e Guido da Polenta lo mandò poi oratore a Venezia. Il Petrarca fu inviato anch'egli presso la Serenissima da Giovanni Visconti; all'imperatore e al re di Francia da Galeazzo II, e prima del papa Clemente VI alla regina Giovanna di Napoli. I signori ed i Comuni facevano a gara per aver segretari letterati che componessero, con destra argomentazione e con erudita rettorica, lettere e discorsi. La nuova arte diplomatica sorgeva insieme colla trasformazione dello Stato. Per non tediarvi con un altro elenco di nomi, ricorderò soltanto, da un lato il Saviozzo da Siena di cui v'ho citato la laude al giovane Galeazzo e che fu cancelliere di Federigo da Montefeltro conte di Urbino; dall'altro Coluccio Salutati che, dopo aver servito la Curia romana, diventò segretario della repubblica di Firenze, e, al pari dei suoi predecessori e dei successori, in tale ufficio, fu uno dei più dotti uomini dell'età sua. Giovan Galeazzo diceva che le epistole di Coluccio gli facevano paura più di mille cavalieri.
VIII
Ma di questo Visconti, che già due volte ho avuto occasione di nominarvi, riparleremo più distintamente in appresso, perchè fu l'ultimo e più compiuto tipo del tiranno trecentista. Ora per rifarmi invece dal primo con cui s'inizia il periodo delle signorie, debbo presentarvi il molto magnifico ed inclito marchese Azzo o Azzolino VI da Este, signore di Montagnana, di Gavello, di Rovigo e del Polesine, non che di parecchi castelli e terre allodiali in Lombardia e in Lunigiana, e di più creato da papa Innocenzo III marchese d'Ancona, del qual feudo doveva poi due anni appresso ottenere da Ottone IV anche l'investitura imperiale. Apparteneva ad una schiatta antica e potente, un ramo della quale costituì in Germania la casa di Brunswick; sicchè Ottone IV in un diploma lo chiamava suo cognato ossia congiunto. Grazie ad un parentado aveva unito ai propri beni le ricchezze grandissime dei Marcheselli Adelardi capi della fazione guelfa in Ferrara, come i Salinguerra erano della ghibellina. Liberale del suo, si era procacciato numerosi aderenti, e grazie al favor popolare otteneva ed esercitava volentieri l'ufficio di podestà, per esempio, nel 1205 a Ferrara, nel 1206 a Mantova, nel 1208 a Verona, dove (dice un cronista) egli d'accordo col conte di San Bonifacio dominò finchè visse.
Le podesterie furono, come già v'ho accennato, primo avviamento alle signorie. Tal magistratura, la quale non aveva nulla a che fare con quella che il Barbarossa, sotto l'istesso nome, aveva già voluto imporre ai Comuni, si era omai estesa, con universale gradimento, in ogni città. Il podestà essendo un forestiero a cui veniva affidato per un solo anno, e coll'obbligo di render conto, l'incarico di far eseguire le leggi e di amministrar la giustizia civile e penale, offriva una guarentigia d'imparzialità che lo rendeva accetto a tutti gli abitanti. Doveva menar seco, non le persone di famiglia (chè gli era vietato), ma una famiglia di giudici, cavalieri e berrovieri. Il sospetto che diventasse troppo potente fece poi distaccare dal