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La vita italiana nel Trecento. VariousЧитать онлайн книгу.

La vita italiana nel Trecento - Various


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finì malamente tra fratricidi e congiure, e nel 1387 Verona cadde in balìa di Giangaleazzo.

      L'istessa sorte toccò l'anno seguente a Padova ed ai Carraresi che avevano imprudentemente aiutato Giangaleazzo contro gli Scaligeri. Marsilio, il quale aveva ottenuto la signoria della città, in premio di aver tradito Mastino per cui trattava la pace, era morto prima di poterne godere, e l'aveva lasciata al cugino non meno fornito d'ingegno che di crudeltà. Avendo questi chiamato a succedergli per testamento un Papafava, l'erede escluso, Giacomo da Carrara, assassinò l'altro nel 1345, e morì assassinato egli stesso cinque anni dopo. Il nipote e il pronipote, Francesco il Vecchio e Francesco Novello, che avevan dovuto nell'88 rinunziare allo Stato, lo ricuperarono dopo alcuni anni, ma finirono nel 1406 strangolati entrambi nelle carceri di Venezia.

      X

      Non posso fermarmi sopra altre delle minori signorie lombarde, tutte macchiate di sangue, e pur non prive d'importanza.

      Ma voglio ricordare, in grazia d'una canzone del Petrarca, i casi di Parma, la quale era passata da Giberto da Coreggio ai Rossi e da questi, per accordi intervenuti, agli Scaligeri, nel 1335. Sei anni appresso, Azzo da Coreggio, che già era stato avvocato dei nuovi signori, in corte pontificia, patteggiò coi Visconti e coi Gonzaga che se l'aiutavano a cacciare costoro dalla sua patria egli ne terrebbe la signoria per cinque anni e poi la consegnerebbe a Luchino Visconti. La sollevazione promossa da uno de' suoi fratelli e da lui soccorsa riuscì felicemente; ed il Petrarca, che entrò con Azzo medesimo, suo amicissimo, nella città liberata, celebrò il fatto in bellissimi versi

      Libertà, dolce e desiato bene

      Mal conosciuto a chi talor no 'l perde,

      Quanto gradita al buon mondo esser dèi.

      Da te la vita vien fiorita e verde:

      Per te stato gioioso si mantene

      Ch'ir mi fa somigliante agli alti dei…

      E poi, con un giuoco di parole o con allusioni conformi al costume letterario del tempo, così continua:

      Cor regio fu, sì come sona il nome

      Quel che venne securo a l'alta impresa

      Per mar per terra e per poggi e per piani;

      E soave raccolse

      Insieme quelle sparse genti afflitte

      A le quali interditte

      Le paterne lor leggi eran per forza,

      Le quali, a scorza a scorza,

      Consunte avea l'insazïabil fame

      De' Can che fan le pecore lor grame.

      E qui viene una erudita enumerazione di tiranni, per concludere, con esagerazione o meglio con finzione poetica, che Mastino e Alberto erano i peggiori di tutti.

      E la bella contrada di Trevigi

      Ha le piaghe ancor fresche d'Azzolino;

      Roma di Gaio e di Neron si lagna

      E di molti Romagna:

      Mantova duolse ancor d'un Passerino.

      Ma null'altro destino

      Nè giogo fu mai duro quanto 'l nostro

      Era, nè carte e inchiostro

      Basterebben al vero in questo loco;

      Onde meglio è tacer che dirne poco.

      Al che tien dietro, per contrapposto, un cenno, più breve, dei principali fautori di libertà, fra i quali tutti naturalmente Azzo porta la palma:

      Non altri al mondo più verace amore

      De la sua patria in alcun tempo accese…

      E, perchè nulla al sommo valor manche,

      La patria tolta a l'unghie de' tiranni

      Liberamente in pace si governa;

      E ristorando va gli antichi danni

      E riposando le sue parti stanche

      E ringraziando la pietà superna,

      Pregando che sua grazia faccia eterna.

      E ciò si po sperar ben, s'io non erro;

      Però ch'un'alma in quattro cori alberga

      Et una sola verga

      È in quattro mani et un medesmo ferro.

      Per gustare artisticamente tal canzone bisogna dimenticare l'occasione per cui fu composta e i fatti che precedettero e susseguirono la celebrata liberazione di Parma. Ma per lo storico invece importa assai il ricordarli; poichè in tal guisa la poesia diventa altresì un documento psicologico, mostrandoci come uno de' più nobili ingegni di quel secolo, pronto ad esaltarsi ai nomi di patria e di libertà, si studiasse di rappresentare quali magnanimi eroi i suoi amici Da Coreggio, purgandoli dalla taccia di traditori. Questo, secondo il Carducci che ha illustrato da par suo l'intiera canzone, è l'intendimento politico con cui fu scritta, e che fa capolino nel congedo:

      Tu pôi ben dir, chè 'l sai,

      Come lor gloria nulla nebbia offosca.

      E, se va' in terra tosca

      Ch'appregia l'opre coraggiose e belle,

      Ivi conta di lor vere novelle.

      Del rimanente se è vero che nei primi tempi il governo dei quattro fratelli Da Coreggio parve imparziale e paterno, presto andò peggiorando; si mise tra loro la discordia; ed Azzo, assenzienti i più, finì nel 44 con cedere la signoria a Obizzo d'Este per 60 mila fiorini d'oro. Laonde Luchino Visconti, lagnandosi della mancata fede, si unì col Gonzaga e cogli Scaligeri, e ruppe la guerra; sinchè nel 46 convenne con Obizzo che gli retrocedesse la città contro rimborso del denaro da lui pagato ad Azzo; il quale poi, riconciliatosi cogli Scaligeri, ne ottenne nuovamente la fiducia, e nuovamente la tradì: “falso ed abietto uomo„ ben dice il Carducci, chè tale va giudicato sebbene il buon Petrarca “seguitasse ad amarlo e lodarlo, e gli dedicasse quasi a conforto i dialoghi De remediis utriusque Fortunae, e ne compiangesse la morte.„

      XI

      La terra tosca, a cui il Poeta indirizzava la canzone (che poi tralasciò peraltro di porre tra le sue Rime) e dove i Da Coreggio desideravano apparire amatori di libertà, non era propizia all'impianto di stabili signorie; ma neanche v'attecchivano ordini durevoli d'alcuna sorta. Tutti avete a mente il rimprovero di Dante a Firenze:

      … fai tanto sottili

      Provvedimenti, ch'a mezzo novembre

      Non giugne quel che tu d'ottobre fili,

      rimprovero che fu suggerito senza dubbio al Poeta dall'acerbo ricordo del suo Priorato (incominciato il 15 ottobre e interrotto anzi tempo il 7 novembre del 1301), ma che si riscontra giusto in tutta quanta la storia del nostro Comune. Legge fiorentina, suonava un vecchio dettato, fatta la sera e guasta la mattina.

      Per tacere dei mutamenti d'istituzioni, di magistrature e di leggi (alcuni dei quali erano vere rivoluzioni più radicali delle moderne, e, come allor dicevasi, facevano popolo nuovo), il Comune, dove già aveva spadroneggiato nel 1301 Carlo di Valois coi guelfi neri, sotto gli auspicî di Bonifacio VIII, nel 1313 dette la signoria di sè per cinque anni all'angioino re Roberto di Napoli, e similmente per altri dieci, nel 25 e nel 26, al primogenito di lui Carlo duca di Calabria (che in diciannove mesi fece spendere più di 900 mila fiorini d'oro senz'alcun frutto); ed in fine del 42 elesse Gualtieri di Brienne, duca d'Atene, a capitano e conservatore del popolo; “avventuriere, dice uno storico, di poca fermezza e di meno fede… cupido, avaro e male grazioso, che pure il popolo stesso, ampliandogli il potere, acclamò signore perpetuo e che dopo una diecina di mesi cacciò con rabbioso furore.„ La ragione di queste frequenti dedizioni sta nella debolezza del Comune, che, riconoscendosi impotente a soddisfare le sue mire ambiziose, si affidava ad un signore di fuorivia nel quale


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