La vita italiana nel Trecento. VariousЧитать онлайн книгу.
d'Aragona. Sarebbe forse sopravvissuta anche al quarto, Ottone di Brunswich, se nelle guerre provocate dalla sua volubilità non fosse caduta nelle mani di un altro cugino, Carlo di Durazzo, che la fece strozzare da' suoi baroni, com'ella aveva fatto strozzare Andrea d'Ungheria, con un cordone di seta e d'oro.
A questa bufera, che travolge popoli e principi, città e regni, individui e famiglie, mescolando tutti in una sola e vasta nebulosa di sangue, due sole contrade italiane riescono quasi interamente a sottrarsi: Venezia e gli Stati del conte di Savoia.
Quali ragioni abbiano principalmente determinato l'indirizzo eccezionale preso da questi due regimi politici, sarebbe lungo esporre, ma non è difficile indovinare.
Così a Venezia come al piede delle valli savoiarde, la benedizione d'un governo stabile s'era potuta creare.
Nulla v'era di comune nello spirito politico dei due governi, ma ad entrambi era riuscito di evitare il periodo delle fazioni, allargando le influenze politiche, e traendo da una maggiore preoccupazione degli interessi popolari una saldezza di base che gli altri governi italiani non conoscevano.
Ho avuto l'onore, nello scorso anno, di tratteggiarvi i primi passi nella storia della dinastia di Savoia. Credo avervi detto allora, e in ogni modo mi permetto ora ripetervi, che nella lunga successione di quei conti, divenuti poi duchi, e quindi re, i critici più acerbi non hanno potuto scovare nè un tiranno nè un vile.
Stonava talmente questa tradizione dinastica coll'esempio di tutte le dominazioni finitime, che la legge storica italiana a poco a poco venne ivi mutando. Passato il primo periodo delle franchigie comunali, succedute al potere vescovile, lo sminuzzamento politico si fermò presto. Ben tennero dominio su parecchie città piemontesi gli Angioini, venuti a combattere la casa Sveva. E parecchie contese trassero in campo, durante il secolo XIII, le due potenti famiglie dei Saluzzo e dei Monferrato. Ma il fenomeno delle città divise in due parti, delle vicendevoli distruzioni e dei deliri di sangue, fu in tutte quelle contrade immensamente minore.
Un influsso di moderazione e di giustizia partiva dalla casa di Savoia, la più potente di tutte. Per le loro guerre, per le loro alleanze di famiglia, pei loro arbitrati, i principi di quella Casa s'erano acquistati un prestigio, di cui non usavano mai per iscopi ingiusti o colpevoli.
L'indole mite e previdente della loro politica faceva sì che nessuna città nuovamente venuta sotto il loro dominio pensasse più a scuoterlo, per affrontare le paurose eventualità di altri regimi. Così non sorgevano occasioni di violenza, i rancori tradizionali si venivano spegnendo nella comune prosperità; lo Stato fondato da Umberto Biancamano sempre più si aumentava di gente spossata dalle guerre civili, e che, adagiata in nuove tranquillità, vedeva da lungi riardere quelle fiamme e rincrudir quelle stragi, alle quali un'amica fortuna l'aveva finalmente sottratta.
Questo spiega come nel secolo XIV appaia già con impronta di Stato moderno quel complesso di dominii, sfuggito al disastroso periodo delle fazioni italiane, e che, con Amedeo V, e più ancora con Amedeo VI, il Conte Verde, vanta un sovrano civile, così dissimile da tutti gli altri principotti della penisola.
Valoroso in Oriente come in Occidente, fortunato innovatore nelle arti della guerra come in quelle della pace, fondatore dell'Ordine dell'Annunziata e autorevole pacificatore delle due Repubbliche di Genova e di Venezia, il Conte Verde brilla fra i personaggi del suo tempo come un precursore di civiltà. Sessant'anni dovranno ancora passare, prima che nel resto d'Italia sorgano due usurpatori di Stati, Francesco Sforza e Cosimo de' Medici, a creare una forma di monarchia civile e durevole. Egli, non usurpatore, ma legittimo principe, precede ogni altro nell'esempio e nell'effetto. Egli solo, nel tempo suo, può dire di avere un dominio basato sull'amore dei sudditi. Le altre signorie italiane si reggono ancora dappertutto sul terrore dei conquistati.
All'opposta estremità della gran valle padana fiorisce l'altra potenza, che si stacca, con sufficiente fortuna, dalla solidarietà delle fazioni italiane.
Di Venezia e delle sue condizioni vi parlerà, con assai maggiore competenza di me, un altro dei vostri conferenzieri. Ciò che solo importa al mio tema è l'attitudine dello spirito pubblico, venutosi educando a forme di pensiero e di manifestazione, affatto diverse da quelle che prevalevano nelle altre parti d'Italia.
Nata sul mare e pel mare, Venezia aveva dovuto coordinare le proprie istituzioni agli speciali bisogni della sua igiene idraulica.
Mentre le valli piemontesi avevano cercato in un principato militare ereditario le guarentigie della loro tranquillità, Venezia le aveva cercate, e per molti secoli ottenute, da un ordinamento a Repubblica commerciale. La casa di Savoia entrava con prudenza nelle questioni italiane, tratta dalla necessità di difendersi contro invasioni oltramontane, o assorbimenti di ambizioni limitrofe. Venezia, non minacciata da siffatti pericoli, cresceva per altre vie; approfittava di errori, che non potevano investirla; costeggiava la politica italiana, senza tuffarvisi.
Le crociate, che erano state per tanti governi causa di rivoluzioni politiche e d'impoverimenti economici, avevano aumentata la sua influenza e la sua ricchezza.
Certo, d'allora le si era schierata contro una potente rivalità marittima, quella di Genova, a cui sapeva male che Venezia avesse tratto dai trasporti marittimi delle prime crociate occasione ad occupazioni d'indole militare, in Dalmazia e in Oriente.
Ma, chetata quella guerra, la Repubblica veneta aveva ripreso le sue attività commerciali e allargate le sue relazioni con tutto il mondo conosciuto. Ben è vero che, dal giorno in cui si mescolarono alle sue tradizioni d'affari interessi d'indole militare, una modificazione aristocratica ne' suoi ordini di governo apparve inevitabile. Già verso la fine del duodecimo secolo, l'elezione dei Dogi era stata levata all'assemblea popolare e trasferita ad un Consiglio di ottimati. Poi, al Consiglio stesso fu data facoltà di eleggere i propri componenti. E finalmente, nel 1297, il doge Gradenigo compiè la Serrata del Gran Consiglio, limitando il diritto di sedervi ai discendenti di quelle sole famiglie che vi avevano avuto fino allora dei rappresentanti.
Questa, che fu una vera rivoluzione aristocratica nel reggimento veneto, provocò immediate resistenze e pochi anni dopo la famosa congiura di Bajamonte Tiepolo. Il governo represse facilmente le prime e punì la seconda, con nessun altro frutto che di dare carattere ancor più chiuso all'istituzione repubblicana, mediante la creazione del terribile tribunale dei Dieci.
Ma, per quanto Giuseppe Ferrari si sforzi di vedere anche in questi fatti la ripetizione dello svolgimento tradizionale italiano, dei comuni, dei tiranni e delle signorie, è facile persuadersi che se violenze sono, sono violenze informate a tutt'altro tipo.
Gli episodi veneti sono d'indole essenzialmente politica; e di una politica a lunghe previsioni, affatto diversa dai moti personali e sussultorii che agitavano in quegli anni medesimi le contrade di terraferma. Bajamonte Tiepolo non è un fazioso come il conte Lando o Lodrisio Visconti; è un rivoluzionario democratico, che vuole ricuperare, non a sè stesso, ma al popolo diritti organici di reggimento politico. Il Gradenigo non è un tiranno come il conte Ugolino o Ezzelino da Romano; è un uomo politico, che determina nella Costituzione dello Stato un nuovo periodo storico, – che può ingannarsi nell'apprezzamento di questa necessità, ma che ha per fine supremo di raggiungere, attraverso temporanee contese, durevoli prosperità.
E che il riformatore aristocratico non si fosse interamente ingannato sembrerebbe dimostrarlo la tranquillità politica goduta da Venezia durante quel secolo XIV rigato di tanto sangue in tutti gli altri Stati d'Italia. Poichè la congiura e il supplizio del doge Marin Faliero non rivelano commozioni di ordine pubblico, ma sono il portato di una vendetta individuale per oltraggi che in tutte le epoche e presso tutte le nazioni si sogliono lavare col sangue.
Certo, il 1300 è l'ultimo secolo, per Venezia, di un'esistenza sicura e di una politica indipendente. Ma il mutamento in essa avvenuto non dipende da influenza di fazioni, se pur può dipendere indirettamente dalla riforma del Gradenigo.
È che nel secolo successivo Venezia si lascia sedurre dal miraggio delle ambizioni territoriali; è che, abbandonando l'antica orientazione politica, si volge a cercarne una nuova attraverso le mutabili combinazioni dei governi europei; è che il berretto ducale cade sul capo di quell'irrequieto megalomane che fu Francesco Foscari, del quale indarno il buon Mocenigo aveva pronosticati gli errori, e al quale Venezia deve il