Una Bolla Fuori Dal Tempo. Andrea Calo'Читать онлайн книгу.
Mi metto di nuovo alla ricerca di una via d’uscita. E’ stato inutile fino ad ora cercare, perché il tempo doveva fare il suo corso e la conoscenza aveva necessità di completarsi. Solo adesso sento l’approssimarsi del momento della mia nuova nascita, non posso mancare a quest’appuntamento per me così importante. Della luce esterna filtra da una piccola fessura che tende ad allargarsi, ed è da lì che uscirò, per capire.
Da un po’ troppo tempo ho cominciato a comprendere le parole che dicono quelli di fuori, grazie anche all’aiuto e alla presenza costante di mia madre nella mia vita. “Dobbiamo entrare per uscire con te”, ripetono all’infinito, con i visi supplicanti e tirati per la vana attesa. Barlumi di vite passate e future sconvolgono le mie espressioni, sensazioni passate, presenti e future sono le cappe pesanti della mie e delle loro esistenze. Leggo nelle loro menti paure infantili, ingigantite dagli anni e dall’esperienza. Occupano la maggior parte delle loro memorie, angoli bui e solai decrepiti aleggiano nei loro cervelli, cinte di cuoio sibilanti e guidate da mani callose, visi sformati dalla rabbia e dalla delusione albergano in modo indelebile nelle pupille, urla e minacce riecheggiano nei timpani. “Dobbiamo entrare per uscire con te!”. La materializzazione delle ossessioni ricorrenti e delle consuetudini più assurde, inculcatemi con la forza nel cervello da genitori non scelti da me. Dicono che vogliono entrare per uscire con me, per eliminare l’assillo di paure passate e di conseguenza senza neanche quelle presenti o future; ma devono fare attenzione perché laddove il tempo perde ogni valore è facile che il passato si confonda con il futuro e ne occupi il posto.
La fessura si allarga sempre di più, provo a uscire, spingo, faccio forza con le piccole spalle, cado sul pavimento nudo e freddo. Poi mi ricompongo e scopro di essere tornata quella di prima. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Improvvisamente, uno scatto repentino e disperato, centinaia di persone si muovono verso la bolla: forse, attraverso la fessura che si è già richiusa, qualcuno è riuscito a entrare. A me la sfera appare trasparente anche dall’esterno, e solo le persone assiepate intorno ad essa m’impediscono di vedere dentro. Ma se uno di loro fosse riuscito a entrare, arriverà fino in fondo, completerà il ciclo soltanto se trasformerà la sua memoria in un vuoto. Non c’è spazio da riempire in un vuoto. Mi guardo intorno e so, anche senza ricordare, di essere già stata qui in questo mondo. Meglio così: senza i ricordi il mio passato non potrà mai più essere anche il mio futuro. Semplicemente perché non lo rammento. So solo che il momento della mia morte è coinciso con il formarsi della bolla. L’inizio della mia rinascita. Vita e morte si confondono, passato e futuro si sovrappongono e il tempo non esiste più. Chi ha perso la speranza e non ha compreso che la fine sarebbe nient’altro che l’inizio, non potrebbe mai capire chi ha addirittura oltrepassato i limiti del tempo e dei ricordi come ho fatto io. Resteranno per sempre prigionieri dei propri ricordi, delle proprie ossessioni e delle proprie angosce.
Il tempo ha perduto ogni suo significato, lui sarà nostro padre. Mi volto un attimo indietro, gli altri non ci seguono più. Anche mia madre, sono tutti ritornati verso le loro sfere. Non ci vedranno più. Forse non ci hanno nemmeno mai visto per quello che in realtà siamo.
Raccolsi le tracce di coraggio che ancora mi erano rimaste, scrollai dal mio corpo e dalla mia mente tutti i divieti che mi erano stati imposti negli anni e presi atto che era ormai giunto per me il momento di ripercorrere i miei passi, uno dopo l’altro, in sequenza. Avrei dovuto superare la barriera di quell’indefinibile periodo buio intercorso tra le mie due vite e del quale non avevo, e tuttora non ho, nessun ricordo, nessuna immagine lucida. Quando rivedo il mio passato, perdo il contatto con la realtà del mio presente. Me ne stacco, e la mia mente inizia a viaggiare, accompagnata dal mio corpo…
Vivo a Joseph, nell’Oregon, in una casa di legno che si affaccia sulla riva del lago Wallowa, uno splendido specchio d’acqua scavato tra le omonime montagne che lo circondano. La casa è posata su un piccolo promontorio, dal quale essa domina il lago in tutta la sua estensione, così come le poche altre case che si trovano in questa zona, per lo più abitate da pastori e contadini. Il monte Sacajawea è ben visibile dal giardino e dalle camere, con tutta la sua imponenza e il candore delle nevi che lo ricoprono per buona parte della stagione fredda. La casa è piuttosto grande, forse troppo perché ospiti una persona sola, probabilmente. Gli spazi dalle dimensioni maestose, quasi dispersive, si plasmano a tutte le cose che si possono trovare da queste parti. La facciata esterna è dipinta di un colore rosso intenso, interrotto dalle bianche finestre e contrastato dal tetto in elegante ardesia, leggermente sbiadito dal sole e macchiato dalle colonie di muschio verde che lo popolano sul versante più freddo e umido. E’ ben visibile anche da lontano, soprattutto quando la tintura è fresca e lucida al punto da riflettere bene i raggi del sole. All’interno invece regna il nudo legno con il suo colore naturale, non ho mai desiderato modificarlo per mia scelta, nonostante i consigli della gente. Io vivo isolata, come un’eremita lontana dal mondo, dalla comunità. Ho sempre desiderato la pace e odiato il confronto. Nessun rumore diverso dai suoni prodotti dalla natura disturba il mio tempo, le mie notti così come i miei giorni. Nelle notti di luna piena, la luce penetra con prepotenza nelle stanze e mi si dispiega accanto, accompagnandomi nei miei pensieri, prendendosi gioco delle tende che ricoprono le finestre, rischiarandole completamente. Non servono le candele, ma io le accendo lo stesso perché adoro il profumo della cera disciolta dall’incontrastabile forza del fuoco. Con loro, accendo anche il fuoco del camino nelle fredde notti invernali. Amo il fuoco e il calore che esso sprigiona con la sua energia, i profumati ceppi di legno di pino, ancora intrisi della loro stessa resina, che bruciano lentamente, il crepitio prodotto dalle fiamme che li attraversano. Scrivo i miei pensieri in un diario, perché alla mia morte io non possa svanire del tutto. Verserò il contenuto delle mie giornate e tutte le mie emozioni sulle sue pagine, traducendole in tratti d’inchiostro nero che qualcuno un giorno potrà forse leggere, se avrà voglia o curiosità di scoprire qualche cosa di me o se vorrà forse ritrovarmi. Mi aiuta l’immagine imponente del mio adorato lago, sul quale sono nata quarantacinque anni fa e che vedo dalla finestra della mia stanza da letto, ogni giorno. Non v’è al mondo un quadro migliore dipinto da pittore alcuno. Ho voluto sistemare lo scrittoio proprio nel punto da dove si può godere il panorama migliore, perché mi possa accogliere e accompagnare al meglio durante le mie confessioni quotidiane. Mi sia concessa la capacità e la grazia di non annoiare oppure offendere alcuno e, se così non fosse, vi chiedo perdono e vi prego di non maledire la mia persona ma semplicemente di riporre queste pagine nel luogo dove le avete trovate o renderle a coloro i quali ve ne hanno fatto dono. E tu mio amato, se mai leggerai questi pensieri, legali sempre all’amore che sento per te. E se puoi, perdonami.
Sistemai le cose più importanti in una valigia sufficientemente grande ma senza porvi troppa attenzione, prevedevo una durata piuttosto lunga per il mio viaggio. Quantomeno questo era quanto mi ero prefissata prima di partire. La mia valigia conteneva vestiti pesanti e caldi, essendo la stagione ormai prossima a un inverno, si diceva, piuttosto rigido. Le calde giornate estive erano ormai un lontano ricordo, tuttavia il freddo non mi è mai dispiaciuto. Mi aiutava a pensare, mentre me ne stavo beatamente seduta sul divano del mio caldo salotto, con una tazza di tè al gelsomino fumante tenuta ben stretta tra le mani. Rinnovato il passaporto, prenotai il volo American Airlines in partenza dall’aeroporto J.F.K. alle cinque del pomeriggio del giorno seguente e diretto a Portland. In settimana si poteva trovare sempre un posto con una certa facilità, anche all’ultimo minuto e a costi non eccessivi. Tuttavia l’aspetto economico non m’interessava per nulla in quel momento, le mie priorità erano ben altre. L’arrivo a Portland era previsto intorno alle otto di sera. Non trovai voli diretti per Joseph, quindi avrei percorso il tratto da Portland al Wallowa con i mezzi pubblici. Non sarebbe stata una passeggiata, la distanza di 343 miglia da coprire avrebbe richiesto ben sette ore di viaggio. Avrei chiesto informazioni direttamente in aeroporto, al mio arrivo. Speravo di trovare un mezzo in partenza la sera stessa, per coprire la tratta durante la notte. Lasciai quindi la città senza annunciare a nessuno la mia partenza. Registrai solo un messaggio con la mia voce sul nastro della segreteria telefonica. Volevo evitare di sentirmi data per dispersa o vedere la mia faccia sbattuta in primo piano in televisione nella rubrica dedicata alla gente scomparsa o sulle pagine dei giornali di cronaca. Sarebbe stato d’intralcio per me, mi sarei sentita pedinata ovunque mi fossi diretta, negli Stati Uniti o nel mondo intero. Tuttavia non volevo nemmeno dare troppi dettagli a riguardo, quindi mi limitai a notificare la mia assenza temporanea con la promessa