Lo Senti Il Mio Cuore?. Andrea Calo'Читать онлайн книгу.
confessione in più da parte mia non avrebbe di certo distorto la mia immagine più di quanto non lo fosse già. Non avrebbe di certo modificato il percorso del mio destino. Tuttavia mantenni un certo riserbo mentre le rispondevo.
«Vado a Cleveland».
«A Cleveland! Ma è fichissimo! Io sono di Cleveland, sto tornando a casa mia!».
Mi sentii come investita da uno schiacciasassi, da una di quelle macchine infernali usate per pressare l’asfalto sulle strade e che rendono il catrame liscio e sottile come una lastra di vetro. Ma questa volta il catrame nero sparso a terra e poi compresso ero io.
«Ah!». Fu l’unico suono che riuscii a produrre con le mie corde vocali impietrite.
«E dove alloggerai?».
Ecco, un nuovo squarcio si apriva nella voragine già sanguinante. Che cosa le avrei risposto? Che non avevo una meta precisa? Che in realtà non avevo una casa in cui stare ma me ne sarei andata a spasso per le strade come una barbona alla ricerca di un posto a basso costo per dormire? Ecco l’idea! Avrei potuto dirle che sarei rimasta a Cleveland solo per un breve periodo, che ero solo di passaggio! Così avrei avuto anche la scusa per cavarmi d’impiccio e scappar via da lei in qualunque momento, per riguadagnare la mia vita! La mia vita! Si, ma quale vita? Ne avevo davvero una?
«Starò in un hotel. Sono solo di passaggio, ci starò solo per qualche giorno», risposi, fiera di aver imboccato per la prima volta la strada giusta, di aver deciso da sola sul da farsi. Era una sensazione nuova per me, dannatamente potente, prodigiosa, una valanga di energia.
«Oh, capisco. Per pochi giorni. Bene, allora puoi venire a stare da me, a casa mia!».
«No, ci mancherebbe altro! Non voglio essere d’impiccio per nessuno io. Ringrazio per l’offerta ma mi dispiace, davvero non la posso accettare».
«Ma quale impiccio, Mel! Noi dell’Ohio siamo fatti così! Guai a rifiutare la nostra ospitalità».
«Noi del West Virginia invece siamo un po’ diversi».
«Dal West Virginia! Vieni da lì? Da quale città?».
La mia vita ormai era diventata di dominio pubblico. Persino l’anziano uomo aveva abbassato il suo giornale per vedere la faccia di quella fuggiasca che stava riempiendo l’aria di quello spazio angusto con le sue parole. Senza difese vomitai anche quello.
«Fico!».
«Ma cosa significa “fico”?».
«Significa “bello”, “forte”! Ma dove vivi scusa? Non hai mai sentito questa parola?».
Le mentii dicendole che l’avevo sentita ma che non l’avevo mai fatta rientrare nel mio dizionario, quindi mi ero disinteressata del suo vero significato. In realtà conoscevo benissimo il significato di quella parola usata per lo più dagli adolescenti, ciò che non capivo era che cosa ci trovasse lei di così “fico” nelle cose che le dicevo. Perché quella ragazza riusciva a trovare del bene o del bello in cose, paesi o situazioni che io avevo odiato da sempre? Cominciai a pensare che forse restare un po’ di tempo con lei mi avrebbe fatto bene. Forse avrei potuto imparare a vivere un po’, rubando lezioni di vita gratuite da una ragazza più giovane di me, come una parassita sociale. Forse lei davvero sapeva come si dovesse vivere nel mondo, in questo mondo del quale facevamo entrambe parte con le nostre innumerevoli diversità.
«E tu dove vivi?», le chiesi.
«Sulle sponde del lago Erie. E’ un posto molto bello, soprattutto la sera quando i rumori della città si attenuano e senti solo quelli provenienti dal lago. La mia casa guarda proprio sul lago e dal giardino si può godere di splendidi e coloratissimi tramonti. Ti piacerà, vedrai. E poi io vivo da sola, non ci sarà nessuno a disturbarci!», concluse con un sorriso malizioso che avevo visto fare a qualche quindicenne vittima dei suoi primi sussulti ormonali.
Le sorrisi e in quel modo le confermai che accettavo il suo invito. Mi sarei sdebitata in qualche modo, avrei diviso con lei le spese per il vitto e per l’alloggio, avrei lavorato e così via. In quel momento pensai che si sarebbe trattato solo di una breve permanenza presso di lei, nel frattempo avrei cercato un alloggio tutto mio e all’occorrenza avrei potuto incontrare la mia amica ogni volta che fosse stato necessario. La mia amica! Sembrava una cosa tanto strana da dire e quasi surreale da sentire. Ma mi sbagliavo, visto che in quella casa sul lago Erie ci passai buona parte della mia intera vita. In un solo giorno ero entrata in possesso di due cose tutte mie, un’amica e una vita. E tutto questo per merito o per colpa di Cindy, di quella sua sfacciata presenza che era riuscita ad abbattere tutte le mie barriere, ogni mio minimo residuo desiderio d’isolamento. Di una presenza ingombrante che ora mi dava sicurezza, come l’amore di una madre o l’abbraccio di una sorella che non avevo mai avuto. Del suo modo violento di entrare nella mia esistenza con le sue parole, con il suo sguardo, con tutta la sua energia e con la sua gomma da masticare. Le chiesi se aveva una gomma anche per me, lei me la offrì. Fu la prima volta che masticai una gomma nella mia vita, era al gusto di fragola.
4
Quando lasciai il mio lavoro di infermiera dopo otto anni di attività, i miei colleghi mi organizzarono una festa a sorpresa. Parteciparono anche i medici, a turno per non lasciare scoperto il servizio di assistenza ai malati ricoverati in ospedale. Durò all’incirca un’ora, sessanta minuti di frastuono e allegria che altri vivevano al posto mio. Mi avevano risvegliata da un letargo, mettendomi per la prima volta al centro di un cerchio, rendendo ancora più complicata la mia partenza. Negli anni avevo capito che quando gli altri ti organizzano una festa è perché tutto sommato provano un certo affetto per te. Loro la chiamano amicizia. Avevo quindi capito che l’amicizia è quel sentimento primitivo che si prova verso un’altra persona con la quale si condivide qualche cosa, una sorta di rapporto umano. Quindi forse avevo avuto qualche amicizia nella mia gioventù ma io ero troppo cruda per rendermene conto. O forse no, si trattava solo di un rapporto di convivenza, di reciproca accettazione e sopportazione che non andava oltre il semplice saluto o la condivisione di un’oretta di gioco. Se l’amico è colui che ti ascolta e che si prende cura di te, che condivide con te le gioie e le paure, allora questo mio amico era il mio pelouche, regalatomi dall’orco e che da quello stesso orco mi aveva difeso finché poté farlo. Mio padre, l’orco, mi aveva regalato la mia unica arma di difesa, perché io potessi difendermi da lui. Mi aveva donato un’amicizia fatta di stoffa e pelo sintetico, perché lui non sarebbe mai stato all’altezza di darmi qualcosa di più. E mio amico fu anche Ryan, il ragazzo dolce che era riuscito a farmi provare un brivido, anche se dal significato totalmente sconosciuto.
Tagliarono una torta decorata che riportava il mio nome e un augurio per il mio futuro scritto sopra con una filatura di cioccolato nero. Ma quale futuro? E soprattutto, il futuro di chi? Versarono bevande analcoliche in bicchieri di plastica, rumoreggiavano come pazzi ubriachi e scatenati alla sagra del pesce del paese. Per qualche istante la mia mente tornò alle notti del pianto, quando mio padre rientrava a casa e sfogava la sua ira sul corpo di mia madre, rassegnato e già pronto nel suo letto ad accettare ancora per una volta, non l’ultima, il suo destino. “Beato chi soffre, perché vedrà il regno dei cieli” sentiva dire nel sermone recitato in chiesa. E lei sorrideva nel sentire quelle parole, accettava la sua vita così come le era stata donata, rassicurata dal fatto che ogni pugno, schiaffo o calcio, ogni violenza ricevuta l’avrebbe avvicinata sempre di più alla porta di quel paradiso tanto bello descritto dagli uomini per loro stessi. In quel paradiso gli orchi non sarebbero mai entrati. Qualcuno si accorse di me, in quel frastuono notarono una lacrima furtiva scivolare via dalle mie palpebre incontinenti per scendere seguendo il profilo del mio volto. Mi dissero “E’ bello vederti commossa per la festa, sei sempre stata così dolce, ci mancherai tanto lo sai?”. Ancora una volta non ero stata capita, non mi conoscevano affatto, non condividevamo nulla. Quindi non potevamo considerarci “amici”. Quel sentimento così importante non aveva per noi alcuna valenza. L’ospedale era stato trasformato in un bordello, schiamazzi e grida mi fecero pensare che forse quella gente fosse piuttosto contenta per la mia partenza, della mia scelta di togliermi dai piedi di mia spontanea volontà. Ero un essere scomodo per tutti loro, troppo diverso e quindi anormale. C’era gente che formava il trenino intonando motivi per me privi di senso e di musicalità, ognuno con le braccia tese e le mani posate sulle