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Le Tessere Del Paradiso. Giovanni MongiovìЧитать онлайн книгу.

Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì


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maestro d’arte provò una forte sensazione di terrore, sudore freddo e fiato corto. Si trovava proprio nel covo degli scaricatori di porto e dei pescatori, i quali, tutti insieme, costituivano una sorta di corporazione per proteggersi dalle minacce esterne e dagli abusi perpetrati ai loro danni. Di Mattia, ovviamente, non vi era più neanche l’ombra,

      «Mi dispiace dirvelo, ma questa notte eravate voi la vittima di quella maledetta volpe!» spiegò perciò Vittore.

      Ad Alessio quasi non cedettero le gambe. Ancora una volta era stato così tanto stupido da cascarci. Mattia non aveva mentito quando aveva detto che quella notte l’unico testimone dell’uccisione del gaito Luca doveva morire… tuttavia era ora di comprendere che l’unico testimone, colui che sapeva troppo e che rappresentava quindi una minaccia per i suoi malvagi disegni, era proprio lui. D’altronde l’esperto mosaicista era stato già condannato a morte, e, non avendo niente da perdere, avrebbe potuto parlare circa l’assassinio del gaito Luca. Inoltre, Alessio era stato visto in viso da quel tizio che aveva provato a difendere la sua vittima, e perciò, se riconosciuto, avrebbe potuto fare il nome di Mattia. Ovviamente, essendo proprio questi il responsabile del prigioniero, l’eunuco doveva aver già preparato un alibi che lo discolpasse da una plausibile accusa di complicità riguardo a quella fuga.

      «Vi ha mandato qui per farvi ammazzare. Che gli avete fatto?» aggiunse ancora Vittore, intanto che il suo interlocutore se ne stava ammutolito e sconvolto.

      «Io… io…» ripeté stralunato Alessio.

      Vittore, che ormai aveva spalancato la porta di casa sua, prese a ridere. Tutti gli altri, coloro che se ne stavano all’interno della casa e quelli sulla piazza, risposero scompisciandosi come dei bambini che trovano piacere nel loro gioco.

      «Ma almeno siete venuto armato, poveruomo?» chiese il giovane pescatore per aumentare l’ironia.

      «Armato di coraggio sicuro!» rispose uno dei presenti.

      «Compari, poco scherzo, io voglio ringraziare quest’uomo a cui sono debitore della vita.» fece Vittore.

      Dunque tirò fuori dalla tasca un ducale26 di Re Guglielmo e lo mise in mano ad Alessio.

      Tutti scoppiarono a ridere. Vittore sminuiva il gesto inusuale dell’altro ricambiandolo con una moneta di medio valore. Quello era il momento di andarsene, prima che l’umiliazione si trasformasse in qualcosa di più pericoloso.

      «Vi ringrazio!» rispose Alessio, stringendo il pugno e la moneta, intimorito e abbassando il capo.

      Quando nondimeno voltò le spalle per andarsene, Vittore gli tirò un calcio nel sedere, facendolo capitolare proprio nel bel mezzo del cerchio di persone.

      «Dite a quel castrato di mandarmi qualcuno che valga più di una moneta d’argento. Se crede che mi sporchi le mani con un poveraccio, ha capito ben poco di me. Non sono un criminale, ma so difendermi da chi mi intralcia. Venga di persona quell’essere immondo, e lo ricompenserò a dovere!»

      In quel momento una folata di vento fece volare via il cappuccio dalla testa di Alessio. Fu allora che uno dei presenti provò stupore nell’osservare i capelli e la barba grigia del maestro d’arte.

      «Vittore, non ricalca costui la descrizione che ci ha fatto il capo della guardia?»

      Il ragazzo osservò per bene lo straniero ed esclamò:

      «Se non è lui poco ci manca!»

      E fece agli altri segno di immobilizzarlo.

      «A quanto ammonta la taglia?» domandò un altro ancora.

      «Non c’è nessuna taglia, ma solo la promessa che Majone saprà ricompensare a dovere chi gli porterà l’assassino di quell’eunuco. È una sua questione personale!»

      Alessio non comprendeva il volgare latino utilizzato da quegli uomini e dunque, vedendosi afferrare per le braccia, spiegò:

      «Io sono un uomo di religione che è stato trattato come non merita… voi, giovane, ricambiate col male la mia onestà!»

      «Voi siete senza dubbio un uomo probo, che come me si è fatto nemico un uomo del Re. Tuttavia, noi che viviamo dell’elemosina del mare siamo anche dei poveracci e dobbiamo guadagnarci da vivere. Questa notte un grosso pesce si è gettato di sua volontà dentro la rete; dovremmo lasciare andare questo regalo del Signore?» rispose Vittore.

      «Non ci guadagnerete uno scifato… non valgo niente io!» urlò Alessio, recalcitrando mentre quelli lo esortavano a camminare.

      «Questo lo stabilirà l’Ammiraglio.»

      Da tutto ciò era evidente che il testimone della locanda, benché fosse rimasto nell’anonimato, avesse raccontato tutto all’autorità competente, e che quest’ultima si fosse rivolta pure ai civili e agli irregolari per raggiungere un rapido successo.

      D’ogni modo, il primo ad essersi accorto che Alessio somigliava alla descrizione dell’assassino del gaito Luca, si parò davanti al catturato e fece riflettere:

      «Da quando in qua facciamo i favori a Majone?»

      «Quando vendi il tuo pesce, Mamiliano, ti curi di chi sia la mano che ti paga?» chiese Vittore.

      «L’Ammiraglio è un uomo senza scrupoli, che non ha rispetto per la gente e né tanto meno per il Re.»

      «Si lamenti Guglielmo allora. Se è vero, come si dice, che costui ha provato a soffiargli il trono, lo faccia esiliare… E se è vero, come si dice, che costui governi nel letto della Regina più del Re, allora lo faccia bruciare vivo sull’argine del fiume. Per quanto mi riguarda l’Ammiraglio ha dimostrato di avere a cuore più gli interessi dei commercianti e dei mercanti che quelli dei feudatari. Non è anche questo che i nobili gli rimproverano?»

      «Guglielmo teme perfino il suo ministro, questa è la verità, e non è capace nemmeno di impedire che Majone gli rubi la moglie. Ricordo bene quando Ruggero condannò al rogo il suo Ammiraglio, quel Filippo di Mahdia che tramava segretamente con i maomettani d’Africa… Se Guglielmo fosse stato appena la metà di ciò che era suo padre avrebbe per lo meno fatto arrestare Majone, soprattutto dal momento che su di lui pendono accuse simili a quelle mosse contro il suo predecessore. Forte è giunto il grido dei cristiani di Mahdia, donne e bambini massacrati senza pietà dalla furia di quei cani infedeli! Ho scambiato due parole con un nobile di fuori città e lui mi ha detto che Majone ha abbandonato volutamente quella gente al proprio destino. Amici, credete a me, l’Ammiraglio è in combutta con i saraceni d’Africa e protegge gli eunuchi del Re, i quali tramano la rivolta per riconsegnarci agli emiri e ai califfi.» spiegò un altro tra i compari del porto.

      «Questi argomenti lasciali al tuo nobile di fuori città; costui avrà sicuramente le giuste argomentazioni per difendersi. Tu invece sei un poveraccio… e i poveracci, caro Duccio, devono parlare da poveracci! Il nostro unico ideale è quello di riempirci le tasche.»

      «Vittore, è un discorso da poveracci dire che costui seduce le nostre sorelle per toglier loro l’onore?» aggiunse sarcastico Mamiliano.

      «Se qualcuno dei presenti ha una sorella disonorata da quel tale, lo dica adesso e lasceremo andare questo povero cristo.»

      «Le giovani figlie dei nobili ribelli sconfitti… lo sanno tutti, Vittore… E poi c’è la storia della sorella del genovese…» stava per raccontare Mamiliano.

      «Il genovese non è dei nostri!» lo interruppe Vittore.

      «Il genovese fa parte della corporazione dei mercanti di stoffe. E riguardo alle figlie dei nobili, Mamiliano, so bene che sono storie vere; ma a noi cosa ce ne importa?» concluse infine.

      Quel breve dibattito si chiudeva lì. In realtà menti più colte avrebbero potuto addurre accuse ben più concrete all’operato di Majone, ma persi tra il “non ci riguarda” e il “per sentito dire” decisero che avrebbero consegnato lo straniero all’Ammiraglio del Regno così da riscuotere la ricompensa.

      «Dove mi portate?» chiese Alessio.

      «Pare che Majone sia disposto a pagare per mettervi le mani addosso.» gli rispose Mamiliano, sin dall’inizio


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<p>26</p>

Ducale: moneta d’argento coniata dai Re normanni. Il ducale era uno scifato, ovvero una particolare moneta a forma di scodella. Per tale motivo nel Regno di Sicilia ducale e scifato erano ritenuti sinonimi.

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