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Le Tessere Del Paradiso. Giovanni MongiovìЧитать онлайн книгу.

Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì


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e dal Kemonia, in quelle notti d’autunno atipicamente calde ed umide, colpivano gli incauti che delle tenebre facevano giorno. Forse, alla luce del sole, analizzando la quantità di punture che ricopriva la pelle di ciascuno, sarebbe stato possibile scoprire chi avesse dormito e chi no. Guardie della ronda notturna, poeti, pescatori, briganti, prostitute e amanti… ognuno aveva un buon motivo per muoversi nel buio. Inoltre, quella notte, quella tra il 7 e l’8 di novembre, era visibile in cielo solo il primo quarto di luna. Perfino l’astro preposto da Dio per illuminare in luogo del sole nascondeva più della metà del suo volto, intendendo disertare la sua presenza per non essere complice del male che stava per consumarsi.

      Alessio stringeva l’impugnatura del pugnale come se questo potesse cadergli dalle mani. Aveva sempre maneggiato seghetti e tronchesine, per tagliare le tessere, ma mai lame di quel genere, ed ora sentiva di avere tra le mani l’attrezzo sbagliato, non adatto al suo mestiere. Al polso teneva invece legato stretto il nastro della sua Zoe, ad indicare come cuore e braccio avrebbero dovuto muoversi adesso con un’unica volontà.

      Dopo aver oltrepassato il Kemonia e proseguito per un dedalo di stradine, Mattia si fermò presso la locanda e in vista della vicina Porta di Sant’Agata. Da quel luogo si raccontava che vi fosse passata proprio la martire catanese, di ritorno alla sua città dopo essersi rifugiata per un periodo a Palermo a causa delle persecuzioni. E sempre riguardo a quella porta si tramandava il ricordo di un’impresa compiuta da un cavaliere normanno durante la guerra contro i mori. Tale guerriero indomito l’aveva attraversata per punire la lingua di un soldato islamico che osava farsi beffe dei cristiani e dei loro santi, ma essendo la porta stata sbarrata dopo il suo passaggio, il cavaliere era stato costretto ad andarsene per un’altra uscita. Un’impresa a dir poco inumana! Nessuno ricordava il nome del cavaliere e si diceva soltanto che egli fosse stato un parente del Gran Conte.

      «Lì, presso la porta, vedete? Vi è ancora la lanterna accesa ai tavoli della locanda.» fece notare Mattia.

      «Della gente mi vedrà in viso!» esclamò Alessio.

      «Quando il gaito Luca va alla locanda paga tutti i tavoli, poiché non vuole nessuno tra i piedi, neanche il locandiere.»

      «È solo?»

      «Lo è! Ma adesso andate, io vi aspetterò qui. Troverete la porta chiusa, ma ecco la chiave! Solo state attento a non fare troppo rumore.»

      «Come fate ad averla voi la chiave della locanda?»

      «Il gaito Luca ne ha una copia, tanta è la fiducia che ripone in lui il locandiere… ed anche io ne ho una.»

      Nell’oscurità quasi assoluta delle strette vie Alessio si avvicinò a quella casa, dunque pian piano girò la chiave nella serratura e fu dentro. Subito la sua attenzione venne catturata dalle spalle di un uomo che se ne stava chino sul suo bicchiere; automaticamente il pugnale venne fuori dalla manica.

      «Mi dispiace, buonuomo, ma non è solo la mia vita che perdo lasciandovi vivere.» spiegò Alessio, giustificandosi ancor prima di commettere il fatto.

      Quello si voltò terrorizzato, poiché non credeva che vi fosse qualcun altro, e scattò in piedi. L’eunuco in questione aveva circa quarant’anni, portava una lunga veste gialla ed uno strano copricapo arancione.

      «Chi siete? Se è denaro che cercate, sappiate che vi darò tutto quello che volete!»

      Ma Alessio, ignorando le parole dell’altro e la propria coscienza, tirò un affondo, ferendolo in maniera importante all’addome.

      Quello indietreggiò e si resse con entrambe le mani al tavolo, ma, vedendo che Alessio digrignava i denti e si avvicinava nuovamente, gridò:

      «Mia Signora, ci attaccano!»

      Quindi un secondo affondo lo colpì al petto, per certo uccidendolo non appena il sangue avrebbe smesso di girare.

      Un tizio poco più giovane di Alessio scese come un pazzo dal piano superiore. Questi vestiva di nero e portava un grosso anello del medesimo colore. Lo sguardo era quello sicuro di sé e senza paura tipico degli uomini di guerra, e la gestualità, imperante e decisa, era quella tipica degli uomini di potere. Inoltre era armato di una lunga spada, la quale risultò subito evidente che sapesse usarla a dovere.

      Alessio schivò il primo fendente e, divincolandosi tra i tavoli, se la diede a gambe gettando dietro di sé quanti più ostacoli riuscisse a trovare. Per poco non ci lasciò le penne!

      Nella confusione ed ancora concitato perse di vista l’angolo al quale avrebbe dovuto aspettarlo Mattia. Gironzolò convulsamente nei pressi della Porta di Sant’Agata per alcuni minuti e poi, sicuro che quel tizio stesse dando l’allarme, si dileguò senza meta per le vie della città, prendendo la direzione del mare. Quando infine fu sicuro di essersi allontanato abbastanza dal luogo del delitto, ritornò nel Cassaro attraverso il Ponticello, ovvero il passaggio sul Kemonia che unisce il suddetto quartiere ai rioni dei giudei posti ad oriente del fiume, e riprese la strada che porta al Regio Palazzo, ma questa volta facendo un altro percorso. Prese la via Marmorea, quella denominata dagli arabi al-Balat per via dei basoli che la ricoprono e che taglia a metà il Cassaro25. Ma fu verso la metà di quel viaggio, mentre veniva avanti come un cane randagio, mentre avanzava disorientato in una città a lui sconosciuta, che si accorse che le merlature e il colore della calce della costruzione dinanzi a sé erano gli stessi di quella indicata da Mattia guardando il panorama dalla loggia del Palazzo Reale. Lì vi abitava Giordano di Rossavilla, l’uomo che l’aveva rovinato, e sempre lì vi era la sua Zoe. Si bloccò all’istante e prese a valutare quale fosse la cosa più saggia da fare. Sentiva l’adrenalina salirgli su per le orecchie e il cuore spaccargli il petto, sia per quello che era successo poco prima sia per ciò che sarebbe potuto accadere da lì a poco.

      Nel palazzo dei Rossavilla, nonostante l’ora tarda, i lumi erano accesi ed un paio di persone parlottavano presso l’ingresso. Il portone era aperto e un tizio della servitù presidiava uno strano via vai di gente. Alessio si incuriosì e credette bene di avvicinarsi. D’altronde si era disfatto dell’arma già da molti minuti e non avrebbe potuto costituire una minaccia per nessuno, se non per sé stesso qualora il nobile l’avesse riconosciuto.

      Non appena l’uomo della servitù lo vide avvicinarsi gli disse:

      «Va’ via… non è il momento per le elemosine!» credendo che si trattasse di un mendicante.

      Effettivamente, benché non indossasse più gli stracci che aveva in carcere, Alessio vestiva in modo semplice e sciatto.

      «Non capisco.» spiegò Alessio, non comprendendo l’arabo usato dall’uomo della servitù.

      «Latif, lascialo stare.» fece uno dei due che sostavano sull’ingresso.

      Questi era un giovane uomo ben vestito e dall’aspetto gradevole, per certo uno dei padroni.

      «Mendicate denaro?» chiese dunque il nuovo giunto, rivolgendosi ad Alessio nel volgare del popolo.

      «Non parlo la vostra lingua.» rispose invece il maestro d’arte.

      «Parlate greco… non vi ho mai visto.» concluse il più giovane, finalmente nella lingua del forestiero.

      «Mio Signore, vedo le lampade accese e il portone aperto a quest’ora della notte; che succede?»

      «Mio padre è gravemente malato, allettato da settimane in un’agonia che sembra non avere fine. Questa notte aspettiamo che il medico dia il suo ultimo responso.» spiegò mestamente il figlio del suo acerrimo nemico.

      «Malato?» ripeté stupito Alessio.

      «Sì, malato… Ma voi chi siete?» chiese quell’altro, cominciando ad insospettirsi per l’inconsueta curiosità del passante.

      «Io sono solo uno dei lavoratori di seta degli opifici del Palazzo del Re.»

      Alessio la buttò lì, d’altronde sapeva bene come alcuni suoi connazionali, esperti lavoratori di seta, molti anni prima fossero stati condotti da Ruggero in Sicilia per lavorare nelle officine reali del suo Palazzo. La seta del Regno, la quale era frutto delle conoscenze greche dei nuovi giunti e della sapienza degli artigiani arabi già presenti a Palermo, era tra le migliori


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<p>25</p>

Cassaro: dall’arabo al-Qasr, fortezza. Durante la dominazione islamica il termine indicava la zona fortificata della città. Col tempo finì per dare il nome alla stessa strada principale di Palermo, ovvero l’al-Balat degli arabi (propriamente lastra di pietra, marmo, da cui il termine siciliano “balata”), chiamata anche via Marmorea durante il periodo normanno, ed appunto Cassaro in epoca successiva. Oggi corrisponde alla via Vittorio Emanuele.

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