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La Ragazza-Elefante Di Annibale Libro Uno. Charley BrindleyЧитать онлайн книгу.

La Ragazza-Elefante Di Annibale Libro Uno - Charley Brindley


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peròla sua espressione inacidita rovinava completamente la sua intera immagine.

      “Cos’è che devi fare ogni giorno quando il sole tramonta?”

      “Pulire i tavoli.” Si ingobbì e si mise a fissare il pavimento. “E preparare le tazze, il vino e le torce.” Lasciò cadere nel cestino la rapa mezza pelata e si pulì il coltello con la manica.

      “Devo ripeterti ogni giorno cosa fare a quest’ora?”

      “No, Madre.”

      Jabnet mi guardò male e rimise il coltello nella sua fodera. Quando fece per andare mi pestò di proposito il piede nudo con il suo sandalo. Il bordo della sua scarpa mi tagliò, ma mi rifiutai di dargli la soddisfazione di sentirmi piangere o lamentarmi con sua madre.

      “Dopo l’arrivo dei soldati,” mi disse Yzebel, “ti prepareremo un posto dove dormire. Ti andrebbe di stare nella mia tenda stanotte?”

      “Soldati?”

      Non mi piacevano. Erano maleducati e brutti. Sapevo che avrebbero deriso me e il povero elefante Obolus. Potevo subire che tutti deridessero me, ma Obolus non poteva più difendersi. Lo stavano probabilmente facendo a pezzettini e stavano cucinando la sua carne sui loro fuochi, ridendo del suo rendersi sciocco. Mi sentivo triste per il povero animale e mi dispiaceva essere stata la causa della sua morte.

      “Sì,” mi rispose Yzebel. “Alla sera, gli uomini vengono al campo per cercare… uhm… il piacere, poi alcuni cercano qualcosa da mangiare qui. Preparo sempre del cibo per loro, e se lo gradiscono, mi danno del rame o dei gingilli dalle loro conquiste sul campo di battaglia.”

      “E se non gradiscono il suo cibo?”

      “Beh, in tal caso lanciano cose e rompono le mie stoviglie.” Mi guardò e deve aver notato la mia espressione assorta. “Sto solo scherzando,” aggiunse. “Sanno di meglio che creare seccature alle Tavole di Yzebel.”

      Non ero sicura di che cosa intendesse, ma sicuramente non volevo che si arrabbiasse mai più con me, come lo aveva fatto quando mi vide indossare per la prima volta il mantello di Tendao.

      “Ora,” mi parlò, “mostrami tutte le tue dita.”

      Misi giù la rapa e alzai le mani, estendendo le dita. Yzebel fece lo stesso, e poi abbassò le dita sulla sua mano destra lasciando alzato solo il pollice. La imitai. Ora avevo tutte le dita di una mano estese, più il pollice dell’altra.

      “Questo è il numero di pagnotte di cui ho bisogno.” Mi spiegò.

      “Sei.”

      Alzò un sopracciglio. “Molto bene. Sono contenta tu sappia i numeri.” Mi indicò una grande brocca di terracotta vicino all’entrata della tenda. “Puoi portare quella caraffa di vino a Bostar e dirgli che è da parte della sua buona amica Yzebel in cambio delle sei pagnotte più fresche che ha?”

      “Sì.” Ero ansiosa di aiutare in ogni modo possibile. “Dove trovo Bostar?”

      “La tenda del fornaio è a due passi da qui.” Indicò a est. “In quella direzione. Sentirai l’odore del cibo quando ti ci avvicinerai.” Esitò prima di continuare. “Sii attenta con la caraffa. Non voglio che tu faccia cadere neanche una goccia. Quel vino è molto prezioso. Hai capito…?” Apparentemente si era dimenticata non avessi un nome.

      “Obolus,” finii.

      Yzebel spalancò gli occhi. Forse non capiva la parola. “Hai detto Obolus? È il grande elefante.”

      “È il nome che voglio scegliermi.”

      Jabnet risse da dietro di me, e realizzai che aveva sentito tutto.

      “È in parte elefante,” disse. “Sapevo che c’era qualcosa che non andava in lei. Forse suo padre era un elefante e sua madre–”

      Lo sguardo fulminante di Yzebel lo silenziò. Tornò a riempire le torce con olio d’oliva e coprirle di stoppini di cottone.

      “Puoi sceglierti il nome che preferisci,” mi rispose. “Ma sei sicura che il nome dell’elefante sia quello giusto per te?”

      “Sì.”

      Presi la pesante caraffa e andai a cercare Bostar.

      Capitolo Tre

      La brocca di vino di Yzebel era chiusa per bene con un tappo di sughero messo bene ed era anche sigillata ermeticamente con un panno di cotone. Ho preso tra le braccia la pesante caraffa, tenendola da sotto con entrambe le mani.

      Lungo il sentiero verso la tenta di Bostar, una varietà di attività catturò la mia attenzione: un fabbro stava trasformando la lunghezza di un metallo nero in una spada; un conciatore lavorava un disegno da battagli in un pettorale di pelle; e un vasaio si impegnava a trasformare un blocco di argilla in una grande anfora.

      Una schiava, probabilmente della mia età oppure forse un po’ più piccola stava in piedi davanti a una tenda nera; usava un dispositivo rotante per creare dei filati di cotone. Su un lato del viso aveva il marchio del proprietario. Sorrise e disse qualcosa ma non capii le sue parole.

      “Devo trovare Bostar, il panettiere, ma la prossima volta mi fermerò per parlare.”

      Non diede alcun segno di avermi sentita. Aspettai, ma lei tornò al suo lavoro così io proseguii sulla via per trovare il fornaio.

      Giunsi a una curva sul sentiero, un cammino andava giù da un lato mentre l’altro svoltava bruscamente nella direzione opposta. La tenda del panettiere era da qualche parte lungo il sentiero a sinistra, ma sull’altro, quello che conduceva tra gli alberi vidi la cosa più spettacolare della mia vita.

      “Elefanti!”

      Affascinata dalla vista e dal suono di così tanti elefanti, sistemai la caraffa tra le braccia e mi diressi verso di loro. Centinaia di elefanti, grandi e piccoli, fiancheggiavano entrambi i lati del sentiero tortuoso. La maggior parte di loro era grigia, ma alcuni erano più scuri, quasi neri. Alcuni avevano le orecchie piccoli, ma molti le avevano enormi, che agitavano avanti e indietro come se fossero dei ventagli. Gli elefanti più grandi erano legati a pali di metallo conficcati nella terra, mentre quelli più piccoli correvano liberi.

      Alcuni animali mangiavano del fieno da dei mucchi lì vicino. Un ammaestratore spinse un melone nella bocca aperta del suo elefante. La bestia lo schiacciò muovendo la testa per catturarne anche il succo, poi inghiottì l’intera cosa, scorza, semi e tutto. Altri rompevano rami verdi e frondosi, più spessi del mio braccio, riducendoli, usando le loro proboscidi e zanne, alle dimensioni di un morso. Alcuni ragazzi correvano in giro con pelli di acqua fiumana, che versavano nelle fosse tra ogni coppia elefanti, facilmente raggiungibili affinché le bestie bevessero. Ridacchiai quando un elefante aspirò l’acqua nella sua proboscide e poi si fece una doccia per rinfrescarsi.

      Odori forti e pungenti dalla grande congregazione di animali riempirono l’aria però non mi sembrava affatto sgradevole.

      Gli elefanti erano belli, e le loro proboscidi erano sempre in movimento, mangiando, bevendo oppure afferrando oggetti vicini.

      È così che Obolus mi ha tirato fuori dall–

      Uno degli animali attirò la mia attenzione. Lungo la fila, a destra, c’era un elefante più alto degli altri. Mangiava da un piccolo pagliaio e occasionalmente anche un melone offertogli da un ammaestratore. Riconobbi qualcosa nel modo in cui si muoveva quando afferravaun carico di fieno e lo scuoteva prima di infilarselo in bocca. La forma della sua testa e delle sue orecchie mi sembravano familiari.

      Che possa essere?

      Affrettai il passo, e più mi avvicinavo all’animale, più me la sentivo che era Obolus. Però c’erano così tanti elefanti e Obolus non era forse morto, colpito da un ramo caduto da un vecchio albero vicino al fiume, sbattendo la testa contro un masso mentre crollava? Quelle zanne che si allungavano dalla sua bocca, erano molto lunghe e si incurvavano all’insù in modo grazioso, facendolo distinguere dagli altri.

      È lui!

      “Obolus!”


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