Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni. Jonathan SwiftЧитать онлайн книгу.
per altro tenendosi sempre ad una distanza maggiore della lunghezza della mia catena. Ordinò ai suoi cuochi e bottiglieri, muniti già d'ordini precedenti, di apprestarmi cibi e bevande, il tutto condotto ivi su certe barelle fornite di ruote, ed alte tanto che fossero a portata della mia mano. Mi presi in mano le barelle e feci presto a vuotarle tutte: venti di esse erano cariche di vivande, dieci di vino; in due od al più tre bocconi io mi mangiava il contenuto di ciascuna delle prime; ogni barella di vino portava l'equivalente di dieci botti diviso in tante caraffine di terra, e i recipienti d'ogni barella io facea vuoti in una sorsata. L'imperatrice ed i giovani principi del sangue d'entrambi i sessi con molto corteggio di cavalieri e di dame stavano in qualche distanza nelle loro carrozze, ma dopo il pericolo corso da sua maestà, smontati tutti, si raccolsero attorno all'imperiale persona che m'accingo ora a descrivere.
Questo monarca è più alto, quasi d'una mia unghia, di tutti gli altri della sua corte: circostanza che bastava di per sè sola a comprendere di rispettosa suggezione chi alzava gli occhi su lui. Vigorose e maschili ne erano le fattezze, austriaco il labbro, il naso aquilino, la carnagione olivastra, la fisonomia dignitosa, ben proporzionato il corpo e le membra, grazioso ogni moto, maestoso il portamento. Era allora fuori della prima giovinezza, poco mancandogli a compire i ventinove anni, de' quali ne contava sette di regno felice e quasi sempre dalle vittorie illustrato. Per poterlo guardar più a mio modo m'ero accosciato in fianco sì che la mia faccia restasse parallela alla sua; ma più tardi, essendomelo tenuto ripetutamente fra le mani, non posso ingannarmi nella descrizione che ne fo adesso. Semplice e liscio ne era il vestito, di foggia tra l'asiatica e l'europea, ma portava sul capo un lieve elmetto d'oro ornato di gemme ed una piuma sul cimiero. Teneva in mano la spada sguainata per difendersi ad un caso che avessi infranti i miei ceppi; era questa lunga all'incirca tre dita, l'elsa ed il fodero ne erano d'oro, tempestati di diamanti. Aveva una voce stridula, ma limpida e sì distintamente articolata, ch'io poteva udirne le parole da stare in piedi. Le dame ed i cortigiani erano messi in tanta magnificenza che il sito ove stavano sembrava un tappeto disteso sul terreno, tutto rabescato di figurine d'oro e d'argento. Sua maestà imperiale mi volgea sovente la parola, ed io rispondeva, ma non intendevamo una sillaba l'uno dell'altro. Vi erano parecchi sacerdoti ed uomini di toga (tali almeno li congetturai dai loro abiti) ai quali fu ordinato di dirmi qualche cosa. Io ebbi un bel parlar loro in tutte le lingue, in quelle, intendiamoci, di cui avevo almeno qualche infarinatura, l'alto e basso olandese, il latino, il francese, lo spagnuolo, l'italiano, la lingua franca, ma fiato gettato!
Dopo due ore a un dipresso, la corte si ritirò; e fui lasciato con una buona guardia per impedire le imprudenze, e probabilmente le malignità che potrebbe commettere la plebaglia ansiosa d'affollarmisi attorno fino al segno cui poteva arrischiarsi; e fra questa plebaglia vi furono alcuni che, mentre me ne stavo seduto per terra alla porta della mia abitazione, ebbero la sfacciataggine di scoccarmi frecce, una delle quali poco mancò non mi trafiggesse l'occhio sinistro. Ma il colonnello ordinò che sei de' capi instigatori del disordine fossero presi, nè trovò per costoro castigo più adatto del darmeli legati nelle mani; a norma di che alcuni soldati me li spinsero inverso con le punte delle loro picche. Presili tutti nella mia mano sinistra, ne misi cinque in una tasca del mio vestito, e quanto al sesto feci mostra di volermelo mangiar vivo. Quel poveretto gridava come una anima dannata, e lo stesso colonnello ed i suoi uficiali erano sbigottiti, tanto più, quando mi videro dar mano al mio coltello; ma li levai ben tosto di pena tutti, perchè serenandomi in viso, tagliai le cordicelle che legavano il paziente, e lo posai gentilmente a terra, d'onde fuggì via con quanta avea gamba. Usai agli altri ugual trattamento, poichè me li fui tolti ad uno ad uno fuor di scarsella. Potei notare allora come i soldati ed il popolo gustassero tale contrassegno di mia clemenza, generoso atto che più tardi, reso noto alla corte, mi fruttò vantaggi ineffabili.
Sul far della notte entrai non senza qualche fatica nella mia casa, ove giacqui sul terreno, e continuai così per due buone settimane; ma in questo mezzo, l'imperatore avea dati ordini perchè mi venisse apparecchiato un letto. Seicento letti di comune misura furono condotti su dei carri, ed introdotti nella mia stanza; centocinquanta de' loro letti uniti insieme facevano appunto la lunghezza e larghezza del mio, di modo che sovrapposti a centocinquanta mi componevano un letto a quattro doppi; ma ad onta di ciò, mi era ben tenue riparo alla durezza del pavimento che era di pietra liscia. Con lo stesso ragguaglio fui proveduto di lenzuola, di coltri e coperte, abbastanza passabili per me che era già assuefatto alle asprezze del vivere.
Divulgatasi la notizia del mio arrivo, tirò questa un prodigioso numero di ricchi, oziosi e curiosi, smanianti tutti dalla voglia di vedermi, di modo che gl'interi villaggi rimanevano deserti, donde sarebbero derivati gravi danni all'agricoltura ed all'economia pubblica e privata, se il provido monarca con gride ed ordini di gabinetto non fosse andato incontro al disordine. Decretò che chiunque m'avesse veduto una volta se ne tornasse a casa, nè s'arrischiasse più a comparire entro un raggio di cinquanta braccia dalla mia abitazione senza una licenza speciale della corte, la qual cosa fu una bella vigna di guadagno ai segretari di stato.
Intanto l'imperatore tenea frequenti consigli ne' quali si discuteva il sistema da adottarsi rispetto a me: affare che dava molto da pensare alla corte, come ne fui assicurato in appresso da un mio particolare amico, personaggio di gran distinzione ed ammesso ai segreti di gabinetto al pari di chicchessia. Or si temea che rompessi le mie catene, ora che il mio mantenimento divenisse eccessivamente dispendioso, e producesse una carestia. Qualche volta si è venuto in discorso di farmi morir di fame, o almeno di scoccarmi frecce avvelenate al volto ed alle mani, che era poi il modo più speditivo per disfarsi di me, ma di lì a poco si considerava che il puzzo d'un così sterminato cadavere come sarebbe stato il mio, avrebbe potuto portar la peste nella metropoli e probabilmente nell'intero reame. In mezzo a tali consulte, parecchi ufiziali dell'esercito arrivarono nell'anticamera della sala del gran consiglio, e due di questi che furono ammessi in sessione, raccontarono il contegno da me usato verso i sei delinquenti de' quali vi ho già parlato. Ciò fece una impressione sì favorevole nel cuore del monarca e di tutti i membri della tavola di stato, che ne uscì un sovrano decreto, in forza del quale tutti i villaggi situati in un circuito di novecento braccia attorno alla città erano obbligati a somministrare ogni mattina sei buoi, quaranta pecore ed altre vettovaglie pel mio sostentamento; ed in oltre una proporzionata quantità di pane, vino ed altri liquori; e pel rimborso de' suddetti generi sua maestà aveva fatto un assegnamento su la sua imperiale tesoreria. Perchè è a sapersi che quel sovrano vive soprattutto su le rendite del suo demanio; e ben rare volte, eccetto casi oltre ogni dire straordinari, leva imposte sopra i suoi sudditi, che hanno per altro l'obbligo di accompagnarlo nelle sue guerre a proprie loro spese.
Nello stesso tempo venne istituita una compagnia di seicento individui obbligati ad essere miei servitori, i quali aveano salari fissi pel loro mantenimento e l'alloggio sotto altrettante tende, convenientemente fabbricate ai lati dell'ingresso della mia abitazione. Fu parimente decretato che trecento sartori mi facessero un corredo di vestiti secondo la moda della metropoli, e che sei fra i primari dotti dell'istituto imperiale fossero impiegati nell'insegnarmi la lingua del paese; finalmente che i cavalli imperiali, quelli della nobiltà e delle guardie del palazzo facessero gli esercizii alla mia presenza per avvezzarsi a non aver paura vedendomi; tutti i quali ordini furono debitamente mandati ad esecuzione.
In tre settimane, poco più, poco meno, si trovò ch'io avea fatto grandi progressi nell'intrapreso studio della nuova lingua. Durante il tempo delle mie lezioni, l'imperatore mi onorava sovente delle sue visite, e si compiaceva assistere egli stesso ai maestri che m'insegnavano. Cominciavamo già in qualche modo a conversare insieme, e le prime parole che imparai, e che di poi gli andai ripetendo ogni giorno mettendomi ginocchione perchè gli giugnessero bene all'orecchio, erano di preghiera perchè si degnasse concedermi la mia libertà. La sua prima risposta a quanto mi parve capire si fu: ciò non poter essere se non l'opera del