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Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze. Франческо Доменико ГверрацциЧитать онлайн книгу.

Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze - Франческо Доменико Гверрацци


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il soffitto tutta andava in fiamme?… Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che peccai? Questa è la stanza dei dannati, ed io non ho fatto male a nessuno nel mondo. Io sono innocente, io! Tu mi hai parlato di madre: portami a vederla, e ti dirò fratello, perocché io sappia ogni creatura nascere da una madre ed essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? Non ho conosciuta la mia… nessuno ha risposto allorché domandai: siete mia madre voi? ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo senza. Ben ho padre e amatissimo. Almeno lo avevo un’ora fa; ora poi non so più se io lo abbia. Adesso poi che madonna Lucrezia è morta. Oh! le sventure vengono sempre e troppo accompagnate. Questa magnanima donna, di cui vi narrerò il pietosissimo caso, che aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Firenze, abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di Dudda: lei era un esempio di domestica virtù; per santità di costumi venerata, dai poverelli per la sua beneficenza benedetta, a ragione della donnesca sua leggiadria a quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole. A lei dunque mi voltai interrogandola dove fosse mio padre: e lei mi ha detto di stare in luogo sicuro; non dubitassi; lo avrei rivisto un giorno, sotto cielo meno inclemente, circondato da creature più buone. Queste parole non mi confortavano per niente; ricordai lo scoppio dell’archibugio, il padre scomparso, e stemperandomi in pianto, più e più sempre invocava il mio povero padre. Le compagne, non sapendo come consolarmi, dolenti anche loro per uguali sventure, piansero al mio pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute le lacrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci conforta, in mille modi diversi s’ingegna raumiliarci: “Il pianto, ci dice, può solamente aggravare i colpi di fortuna; abbiamo coraggio per i casi con i quali il Signore intenderà provarci; ricordiamoci le donne che con rischio della vita avevano pigliato in mano la difesa della patria e che non dovevano piangere; a nemico superbo opponiamo tutte le nostre forze; un giorno anche loro scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio volgiamo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci raccomandiamo; viviamo le nostre vite con onore; se no, scegliaimo la morte, e il cielo si aprire a raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri.” Così accesa nel volto con occhi lucenti favellava la santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi l’abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne si strinsero attorno a me, come colombe paurose del nibbio; io lo guardavo fisso e sentivo ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue, sicchì se avessi in mano daga o archibugio e avessi saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. Quel uomo, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna; procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in atto di ossequio, poi diventò a mano a mano, concitato nel dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro, come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo a volte impallidire, a volte arrossire a guisa di persona posta al tormento. All’improvviso quel triste proruppe: “Fin qui pregai. Ora sappiate che io posso volere e voglio…” Lucrezia lo supplicava tacesse, il luogo considerasse e le persone; ma l’altro non udiva ed ambe le braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando, gliel’appunta alla gola gridando: “Scostati, o sei morto.” Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in compagnia di alquanti suoi scherani, e con loro noi tutti uscimmo. Lucrezia volse i passi frettolosi alle sponde dell’Arno. Talora si ferma, guardando il cielo e la terra: e poichì il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi piante… Volgendosi a noi ci disse: “L’ultima ora di un giorno e di una vita è compiuta; pregate per un’anima che sta per passare.” Il senso di quelle parole non ci era chiaro, pure pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove non l’avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono anche loro, sforzandosi richiamare sulle labbra l’orazione nei primi anni della vita imparata dalla pia genitrice. Noi donne stavamo sopra il ciglione dell’argine; menava sotto vertiginose le acque l’Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni precedenti. Madonna Lucrezia si leva: aveva nel volto gran parte di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci guardò mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo la bocca favellò: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto la morte con onore che la vita con vergogna, stamani con parole io v’insegnavo; guardate, adesso ve lo confermo con l’esempio. Ah! il pianto mi toglie possibilità di raccontarvi partitamente come ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: come vedessimo ora apparire sulle acque, ora scomparire sotto, la santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre l’onestà alla vita che quante volte l’impeto dei vortici la respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si attuffava giù nel fondo. Una voce lontana penetrò nel corpo di guardia, che chiamava:

      “Lena! Annalena!”

      “Silenzio!”

      “Lena!”

      “Ah! padre, padre, padre!…”

      E tutti uscirono dalla porta a gola spiegata gridando:

      “Qua. Da questa parte. Venite oltre. Qui è vostra figlia”. Cessa la voce, s’intendono passi precipitati; arriva un vecchio ansante, si slancia con giovanile leggierezza fra le braccia della vergine, ella di lui; e piangendo, mormorando parole slegate, alternando baci e carezze, godono piena la gioia umana, la cessazione del dolore!

      Alcuno dei circostanti piegava altrove il volto, vergognando mostrarlo lacrimoso; Lupo rideva, non capiva in sì dalla contentezza. Poichì si furono alquanto rimesse quelle calde dimostranze di affetto, il vecchio con labbra ridenti e cuore devoto diceva grazie agli ospiti della figlia.

      “Oh! – rispondeva Lupo – qui non ci capiscono grazie; noi non abbiamo fatto altro che dirle buone parole… e queste costano tanto poco, e tante ne sprechiamo invano e per male che davvero non meritano pregio le pochissime proferite per bene. Io ve l’ho conservata, come padre; e sebbene la presenza vostra mi tolga la dolcezza di questo nome, siate ben venuto, buon uomo. Se però non vi offendesse la proposta, e voi voleste accoglierla con quell’animo col quale ve la offeriamo noi, starebbe a voi renderci gli uomini più lieti di questa terra (perdonate il rozzo dire alla sincerità delle intenzioni)… accettando parte dei nostri denari…”

      “Lupo ci vince in valore, in magnanimità, in anni, in tutto”, – esclamarono i giovani.

      “Per gli anni, sta pur troppo e, mio malgrado, bene; pel rimanente, e nasca quello che sa nascerne, voi mentite per la gola”.

      “Gente da bene, la vostra cortesia supera la parola: io ve ne rendo con l’animo quelle grazie che so e posso maggiori. Dal naufragio della fortuna tanto ancora mi avanza da sostentare me e la mia figliuola finchì il nemico duri nelle nostre contrade. Allora spero che Dio vorrà concedermi tanto di vita da restituire in lieto stato le mie terre, rialzare la casa…”

      “Amen!” risposero i circostanti.

      “Però tra morire e vivere da schiavo”, – continuava il padre di Annalena, – “la differenza è questa: i morti non sentono nulla, i vivi si consumano sotto il peso delle catene. Lena mia, ti faccio manifesto il mio testamento alla presenza di questi valenti uomini; dove il leone coronato rimanga insegna della Repubblica, tu vivi, prova gli affetti di sposa, le santissime cure di madre; se le palle trionfano… eccoti… prendi questo coltello… comunque corto sia, può sciogliere un’anima dai legami del corpo”.

      Capitolo Ottavo

      Giovanni Bandino

      Poco oltre a mano destra del principe di Orange[12], immobile come pietra, sta Giovanni Bandino; tiene il volto e gli sguardi tesi verso Firenze. Dalla fronte pallida gli piovono grosse gocce di sudore; paiono lacrime piante sopra di lui da occhi invisibili: trema forte e non dice parola. In campo lo spregiavano e temevano; ma lui fuggendo ogni umano consorzio non dava luogo alle offese: quando negli scontri di guerra vedeva i soldati bestialmente inferocire e farsi ciechi per ira, lui, scoperto di ogni arme difensiva, si cacciava là dove i colpi e gli uomini cadevano più spesso. All’assalto di Spelle seguitò impassibile fin sotto il muro gli assalitori; fischiavano le palle intorno al suo capo, rovinarono corpi di uccisi o sconciamente mutilati, e pareva che lui non


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<p>12</p>

Filiberto di Châlons (1502–1530) – un condottiero francese, nonché principe d’Orange e viceré di Napoli dal 1528 al 3 agosto 1530

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