Saving Grace. Pamela Fagan HutchinsЧитать онлайн книгу.
per riuscire ad ascoltare i miei istinti, che gridavano sono stronzate! così forte da farmi quasi perdere il terzo orecchio. Stavo preparando il caso più importante della mia carriera – una scusa niente male per presentarsi in ufficio solo all’ora dell’happy hour – anche se in realtà la mia vera ossessione era l’investigatore privato assegnato al mio caso.
Nick. Il quasi divorziato Nick. Nick, il nuovo collega che a volte sembrava volesse strapparmi via la camicetta con i denti, quando non era impegnato ad ignorarmi.
Ma le cose erano cambiate.
Era stato raggiunto un verdetto sul mio mega-processo, il caso di licenziamento senza giusta causa del signor Burnside. Il mio studio raramente si schierava dalla parte del querelante, ecco perché mi ero assunta un grande rischio con questo caso – facendo vincere tre milioni di dollari al signor Burnside, un terzo dei quali spettavano allo studio. L’esatto opposto di un disastro.
Dopo la vittoria al tribunale di Dallas, io e la mia assistente legale Emily ci dirigemmo all’hotel dove lo studio aveva organizzato un ritiro aziendale, a Shreveport, in Louisiana. Shreveport non è di certo nella lista delle migliori destinazioni per vacanze aziendali, ma il nostro socio anziano aveva un debole per il poker, e amava la cucina cajun, il jazz e i casinò sull’acqua. Per Gino, questa vacanza era una bella scusa per concedersi un po’ di texas hold ‘em tra un seminario di team building e l’altro, senza perdere la sua reputazione fenomenale, ma per noi significava un viaggio di tre ore e mezza, andata e ritorno. Non era un problema per me ed Emily. Colmavano i vuoti del rapporto assistente legale/avvocato e amica/collega con disinvoltura, principalmente perché nessuna delle due pretendeva di darsi delle arie.
Una volta arrivate, ci precipitammo a fare il check-in all’Eldorado.
“Desiderate una mappa dei ghost tour?” chiese la receptionist poliglotta, con il suo accento texano.
“La ringrazio, ma no, grazie,” biascicò Emily. Nei dieci anni che era stata lontana da casa, non era ancora riuscita a togliersi il ritmo biascicato tipico della città di Amarillo dalla voce, o rinunciare alle corse dei cavalli.
Anch’io non credevo in quegli abracadabra, ma non ero nemmeno una patita dei casinò, che trasudavano puzza di fumo e disperazione.
“Avete per caso un karaoke, o qualsiasi cosa non sia un casinò, in loco?”
“Certo, signora. Abbiamo un bar panoramico con karaoke, tavoli da biliardo, questo genere di cose.” La ragazza si sistemò la frangia, per poi farla tornare esattamente dov’era prima, scuotendo la testa.
“Questo mi ispira,” dissi ad Emily.
“Karaoke,” rispose. “Di nuovo.” Alzò gli occhi al soffitto. “Se solo potessimo venirci incontro. Voglio giocare a blackjack.”
Dopo aver lasciato le valigie nelle nostre stanze ed esserci date una rinfrescata, parlando al telefono per tutto il tempo, ci unimmo al gruppo. Tutti i colleghi scoppiarono in un applauso non appena entrammo nella sala riunioni. La notizia della nostra vittoria ci aveva precedute. Ci inchinammo, per poi attribuirci il merito l’un l’altra.
“Dov’è Nick?” Chiesi. “Vieni qua.”
Nick aveva lasciato l’aula di tribunale mentre la giuria era uscita per deliberare, battendoci sul tempo. Si alzò in piedi da un tavolo dall’altra parte della stanza, ma non ci raggiunse. Lo applaudii comunque a distanza.
Mentre l’applauso si spegneva, alcuni soci mi indicarono di sedermi al loro tavolo, vicino all’entrata. Mi unii a loro e, nei quindici minuti successivi, ci concentrammo per riscrivere la missione aziendale. Emily ed io eravamo arrivate giusto in tempo per la fine della conferenza. Nel dividerci, il gruppo si precipitò dall’hotel all’imbarcazione ormeggiata che ospitava il casinò. In Louisiana, il gioco d’azzardo è permesso solamente sull’acqua o su terre tribali. D’impulso, mi diressi verso l’ascensore, anziché al casinò. Appena prima che le porte si chiudessero, una mano vi si infilò in mezzo, facendole riaprire, e mi ritrovai diretta alla mia stanza d’hotel in compagnia di niente meno che Nick Kovacs.
“Quindi, Elena, anche tu non giochi d’azzardo,” disse, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano.
Mi si capovolse lo stomaco. Una sdolcinata, lo so, ma quando era di buon umore, Nick mi chiamava Elena — come Elena di Troia.
Avevo promesso ad Emily una partita veloce a blackjack, prima di andare al karaoke, ma non era necessario che lo sapesse. “Se davvero esiste la fortuna del principiante,” dissi. “Giocare d’azzardo potrebbe rivelarsi pericoloso per me.”
La sua risposta fu un silenzio di tomba. Entrambi guardavamo giù, su, a destra, a sinistra, ovunque purché non l’un l’altra, il che era difficile, dato che l’ascensore era ricoperto di specchi. C’era un tantino di tensione nell’aria.
“Però ho sentito che c’è un tavolo da biliardo al bar dell’hotel, mi piacerebbe andarci,” proposi, buttandomi a gamba tesa e trattenendo il respiro nel mentre.
Di nuovo un silenzio di tomba. Un interminabile silenzio di tomba. Sarebbe stata dura riprendersi da questa batosta.
Senza incrociare il mio sguardo, Nick disse, “Okay, ci troviamo là tra pochi minuti.”
Ha davvero detto che ci troviamo là? Solo noi due? Insieme? Oddio, Katie, ma che cosa hai fatto?
Le porte dell’ascensore si aprirono e ognuno si diresse verso la propria stanza. Era troppo tardi per tirarsi indietro adesso.
Ero in stato confusionale. Iper-ventilando. Sudando. Con il cuore a mille. I miei vestiti erano completamente sbagliati, così mi liberai del completo di Ann Taylor e misi su dei jeans, una camicia bianca semplice, e sì, lo ammetto, una borsetta colorata di Jessica Simpson, con dei sandali alti coordinati. Il bianco faceva un bel contrasto con i miei lunghi e ondulati capelli rossi, che sciolsi e sistemai sulle spalle. Lungi dal sembrare un’avvocata, era proprio lo stile che cercavo. Per di più, non mi piaceva neanche il mio lavoro, quindi perché ostentarlo nello stile?
Solitamente sono ossessionata con l’igiene personale, ma mi limitai ad una lavata veloce di denti, una passata di deodorante e del rossetto. Stavo pensando di chiamare Emily per dirle che le avrei dato buca, ma sapevo che avrebbe capito una volta che le avessi spiegato le circostanze. Corsi in ascensore e maledissi ogni singolo piano in cui si fermò, prima di raggiungere il tetto.
Ding. Finalmente. Mi fermai a riprendere fiato. Contai fino a dieci, presi un’ultima boccata d’aria per darmi coraggio e mi diressi attraverso delle luci soffuse al bar. Mi affiancò l’uomo di cui avrei potuto annusare la mascolinità a metri di distanza. Il calore mi invase le guance. Il mio motore si accese. Proprio l’uomo che cercavo.
Nick aveva origini ungheresi e doveva ringraziare i suoi antenati gitani per i suoi colori scuri — gli occhi, i capelli, la pelle — e per gli zigomi pronunciati. Aveva una presenza animalesca che amavo, non la classica bellezza tradizionale. Aveva un naso piuttosto largo, e curvo, dopo averlo rotto così tante volte. Una volta mi aveva raccontato che i suoi incisivi storti erano dovuti ad una mattinata di surf andata male. Ma era affascinante in un modo che non si può spiegare e, dagli sguardi femminili che spesso notavo, non ero l’unica a pensarla così.
Si accorse di me. “Ciao, Elena.”
“Ciao, Paride,” risposi.
Sbuffò. “Oh, tutto ma non il tuo Paride. Paride era un rammollito.”
“Mmmmmm. Menelao allora?”
“Mm, birra, per favore.”
“Sono abbastanza sicura che non ci fosse nessuno chiamato “birra” nella storia di Elena di Troia,” dissi, storcendo il naso con aria superiore.
Nick si rivolse al barista. “Una St. Pauli Girl.” E finalmente sfoggiò il suo tipico sorriso, facendo scomparire tutta la tensione accumulata in ascensore. “Ne vuoi una?”
Mi serviva più di una boccata d’aria per prendere coraggio. “Una Amstel