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Alla conquista di un impero. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.

Alla conquista di un impero - Emilio Salgari


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mylord. Non è per te.

      – Io pagare e volere manciare.

      – Un momento solo e ti servo.

      – Contare momenti sul mio orologio, poi tagliare a te un orecchio. —

      Si tolse da un taschino un magnifico cronometro d’oro e lo mise sulla tavola, fissando le lancette.

      In quel momento Sandokan era entrato, mettendosi a sedere ad un tavolo che si trovava presso una finestra e che non era stato occupato.

      Indossando un costume orientale ed avendo la pelle colorata, nessuno aveva fatto gran caso a lui. Poteva passare per un ricco indù del Lahore e di Agrar, giunto per assistere alla celebre cerimonia religiosa.

      Il famoso pirata malese si era appena seduto che tre o quattro giovani servi gli furono intorno, chiedendogli premurosamente che cosa desiderasse per cena.

      – Per Giove! – esclamò Yanez, gettando via con stizza la sigaretta che aveva appena accesa. – È entrato dopo di me ed eccoli tutti intorno a servirlo. Un europeo non potrà mai fare niente di buono in questo paese, a menoché non sia un furbo matricolato. Ah! È così! Vedrete che cosa saprà fare mylord… Moreland. Prendiamo il nome del figlio di Suyodhana. Suona bene agli orecchi.

      Ah! Toh! Vi è da bere! —

      Una caraffa, ordinata certamente dai quattro kaltani che prima occupavano il tavolo, si trovava nel mezzo, con accanto una tazza.

      Yanez, senza preoccuparsi dei suoi proprietari, l’afferrò e se l’accostò alle labbra, tracannando una lunga sorsata.

      – Vero arak, – disse poi. – Squisitissimo in fede mia! —

      Stava per riassaggiarlo, quando uno dei quattro kaltani barbuti si avvicinò al tavolo, dicendogli in un pessimo inglese:

      – Scusa, sahib, ma quella caraffa appartiene a me. Tu hai appoggiate al vaso le tue labbra impure e pagherai il contenuto.

      – Chiamare me, mylord, innanzi tutto, – disse Yanez, tranquillamente.

      – Sia pure, purché tu paghi quel liquore che io ho ordinato per me, – rispose il kaltano con accento secco.

      – Mylord non pagare per nessuno. Trovare caraffa sul mio tavolo ed io bere finché non avere più sete. Lasciare tranquillo mylord.

      – Qui non sei a Calcutta e nemmeno nel Bengala.

      – A mylord non importare affatto. Io essere grande e ricco inglese.

      – Ragione di più per pagare ciò che non ti appartiene.

      – Vattene al diavolo —.

      Poi, vedendo passare un altro garzone che portava un certo piatto colmo di frutta cotte, lo prese pel collo, urlandogli:

      – Qui! Metti qui, davanti mylord. Metti o mylord strangolare.

      – Sahib! —

      Yanez, senza attendere altro, gli strappò il piatto, se lo mise dinanzi e dopo d’aver dato al garzone una spinta che lo mandò a battere il naso contro un tavolo vicino, si mise a mangiare, borbottando:

      – Mylord avere molta fame. Birbanti indiani! Mandare io qui cipay e cannoni e bum su tutti voi! —

      A quell’atto di violenza, compiuta da uno straniero, un minaccioso mormorìo era sfuggito dalle labbra degli indiani, che stavano cenando nella trattoria.

      I quattro kaltani si erano anzi alzati, tenendo le mani appoggiate sui loro lunghi pistoloni e guardandolo ferocemente.

      Solo Sandokan rideva silenziosamente, mentre Yanez, sempre imperturbabile, si divorava coscienziosamente le frutta cotte inaffiandole di quando in quando coll’arak che non aveva pagato, né che intendeva pagare.

      Quand’ebbe terminato, afferrò quasi di volata un terzo garzone, strappandogli di mano una terrina piena di carri, condito con un magnifico pesce.

      – Tutto questo per mylord! – gridò. – Voi non servire, ed io prendere, by God! —

      Questa volta un urlo d’indignazione si era alzato nella sala.

      Tutti gl’indiani che occupavano le tavole erano balzati in piedi come un solo uomo, seccati da quelle continue prepotenze.

      – Fuori l’inglese! Fuori! – gridarono tutti, con voce minacciosa.

      Un ragiaputra d’aspetto brigantesco, più ardito degli altri, si avanzò verso il tavolo occupato dal portoghese e gli additò la porta, dicendogli:

      – Vattene! Basta! —

      Yanez, che stava già attaccando il pesce, alzò gli occhi sull’indiano, chiedendogli con perfetta calma:

      – Chi?

      – Tu!

      – Io, mylord?

      – Mylord o sahib, vattene! – riprese il ragiaputra.

      – Mylord non avere finito ancora cena. Avere molta fame ancora, caro indiano.

      – Va’ a mangiare a Calcutta.

      – Mylord non avere voglia di muoversi. Trovare qui roba molto buona ed io mylord mangiare ancora molto, poi tutto pagare.

      – Buttalo fuori! – urlarono i kaltani, furibondi.

      Il ragiaputra allungò una mano per afferrare Yanez; ma questi gli scaraventò attraverso il viso il pesce che stava mangiando, accecandolo colla salsa pimentata che lo contornava,

      A quel nuovo atto di prepotenza, che suonava come una sfida, i quattro kaltani ai quali Yanez aveva bevuto l’arak, si erano slanciati contro la tavola urlando come indemoniati.

      Sandokan si era pure alzato, mettendo le mani entro la fascia; ma uno sguardo rapido di Yanez lo fermò.

      Il portoghese era d’altronde un uomo da cavarsela, senza l’aiuto del suo terribile compagno.

      Scaraventò innanzi a tutto addosso ai kaltani la terrina del carri; poi afferrato uno sgabello di bambù l’alzò, facendolo roteare minacciosamente sui musi dei suoi avversari.

      La mossa fulminea, la statura dell’uomo e più che tutto quel certo fascino misterioso che esercitano quasi sempre gli uomini bianchi su quelli di colore, avevano arrestato lo slancio dei kaltani e di tutti gli altri indù, che stavano per prendere le difese dei loro compatriotti.

      – Uscire o mylord inglese accoppare tutti! – aveva gridato il portoghese.

      Poi, vedendo che i suoi avversari stavano lì immobili, indecisi, lasciò cadere lo scanno, trasse due magnifiche pistole a doppia canna, arabescate e montate in argento e madreperla e senz’altro le spianò, ripetendo:

      – Uscire tutti! —

      Sandokan fu il primo a obbedire. Gli altri, presi da un subitaneo panico e anche per evitare al loro governo, già non troppo ben visto dal viceré del Bengala, delle gravi complicazioni, non tardarono a battere in ritirata, quantunque tutti possedessero delle armi.

      Il proprietario della trattoria, udendo tutto quel baccano, fu lesto ad accorrere impugnando una specie di spiedo.

      – Chi sei tu che ti permetti di guastare i sonni di S. E. il ministro Kaksa Pharaum che abita sopra e che metti in fuga i miei avventori?

      – Mylord, – rispose Yanez con tutta tranquillità.

      – Mylord o contadino t’invito a uscire.

      – Io non avere ancora finita mia cena. Tuoi boy non servire me e io prendere a loro piatti.

      Io pagare e avere per ciò diritto mangiare.

      – Va’ a terminare la tua cena altrove. Io non servo gl’inglesi.

      – E io non lasciare tuo albergo.

      – Farò chiamare le guardie di S. E. il ministro e ti farò arrestare.

      – Un inglese mai avere paura delle guardie.

      – Esci? –


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