Le stragi delle Filipine. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.
sfuggire inosservata. È molto tempo che abita a Manilla?…
– Non lo so.
– Dove si trovava, prima che scoppiasse l’insurrezione?…
– Non lo ricordo.
– O meglio non vuoi dirmelo —
– Può essere, – rispose il malese, con un sorriso malizioso. Poi per tagliar corto quel dialogo uscí, mettendosi di guardia alla porta della capanna.
Da una bisaccia che gli pendeva dal fianco aveva estratto un pizzico di siri, miscuglio formato di noci d’arecchie ridotte in polvere, di una piccola dose di succo concentrato dell’amaro e astringente gambir e di un po’ di calce viva, l’aveva avviluppato accuratamente in un pezzetto di foglia di betel e si era messo a masticare, con visibile soddisfazione, quella piccola pallottola, lanciando di quando in quando getti di saliva rossastra che pareva mescolata a sangue.
Romero, conoscendo la cocciutaggine dei malesi, si era seduto dinanzi alla casupola, aspettando pazientemente il ritorno della giovane chinese.
Le ore però trascorrevano, ma nessuno tornava, nemmeno il negrito che doveva aver lasciata la capanna prima dell’alba. Il meticcio, le cui inquietudini aumentavano, temendo che qualche disgrazia fosse toccata alla valorosa Than-Kiú, aveva piú volte proposto al malese di andarla a cercare, ma questi si era limitato a rispondere che la chinese non era donna da lasciarsi sorprendere dagli spagnuoli.
Erano circa le due pomeridiane, quando gli acuti sensi del malese percepirono qualche cosa. S’alzò rapidamente afferrando il fucile che teneva a portata delle mani, ma poco dopo tornò a sedersi, dicendo:
– Tornano.
Romero respirò. L’eroica fanciulla che esponeva per lui, con un sangue freddo straordinario ed un’audacia incredibile per una donna, la vita, cominciava a destare nel suo cuore un’ammirazione che poteva diventare pericolosa per la Perla di Manilla.
Poco dopo Than-Kiú giungeva dinanzi alla capanna, seguita dal malese e dal brutto negrito. Pareva che avesse fatto una semplice passeggiata, poiché le sue vesti non erano punto disordinate; solamente il suo volto latteo era diventato leggermente roseo. Dai suoi sguardi però traspariva una viva ansietà.
– Finalmente! – esclamò Romero, senza nascondere la gioia che provava nel rivederla. – Tu mi hai fatto provare molte angosce, fanciulla.
Than-Kiú sorrise, mentre nei suoi occhi neri brillava un rapido lampo. Prese il meticcio per una mano e trattolo nella capanna, disse, ma con un accento che tradiva una profonda inquietudine:
– Hang-Tu corre un grave pericolo.
– Lui!… – esclamò Romero. – Come le sai tu?…
– Le truppe spagnuole accampate nella provincia, si ripiegano precipitosamente su Manilla.
– Tanto meglio; ci lasceranno il passo libero per giungere a Salitran.
– Non è Salitran che bisogna salvare ora, ma Hang-Tu, mio signore.
– Non ti comprendo.
– Oggi gli insorti tentano un colpo di mano entro le mura della capitale, per costringere il generale Polavieja a sospendere l’investimento di Cavite, la quale non è abbastanza fortificata per resistergli, e per lasciare a te il tempo di rendere Salitran inespugnabile.
– E chi tenterà il colpo?
– Hang-Tu.
– Per uccidere tutti gli spagnuoli di Manilla?… Disgraziato! Mi ucciderà Teresita!…
– Lui!… No, mio signore.
– Se non lui i suoi malesi ed i suoi chinesi od i tagali. Quando quegli uomini sono scatenati, diventano tigri assetate di sangue al pari dei juramentados e non risparmiano né donne, né fanciulli.
– Hang-Tu la proteggerà, – disse Than-Kiú, ma con voce sorda.
– Voglio tornare a Manilla.
– Volevo proportelo, quantunque il mio cuore si ribelli.
– Perché, Than-Kiú?…
La giovane chinese fece un gesto negativo col capo, poi riprese con voce lenta:
– Ciò riguarda il Fiore della Perle e non la Perla di Manilla.
– Che cosa vuoi dire, strana fanciulla?
– Partiamo, mio signore, Hang-Tu ignora che gli spagnuoli, avvertiti del colpo di mano da qualche traditore, accorrono in aiuto della capitale. Se non se ne accorgeranno, tutti quei prodi saranno schiacciati ed io non voglio che Hang muoia.
– Lo ami forse?
– Sí… ma come un fratello.
Poi, dopo un sospiro, aggiunse con voce triste:
– Tu non comprenderai forse mai il Fiore delle Perle.
Uscí rapidamente dalla capanna senza spiegarsi di piú, salí sul cavallo che il negrito teneva per la briglia e lo lanciò ventre a terra attraverso il bosco, gridando:
– Seguitemi o sarà troppo tardi!
Romero ed i malesi balzarono in arcione e si lanciarono sulle sue tracce, spronando i corsieri.
Than-Kiú galoppava sempre, ma non teneva una via dritta. Ora abbandonava il bosco spingendo il cavallo in mezzo alla campagna coltivata, ora vi rientrava per poi uscirne di nuovo. Forse sapeva ormai dove si erano accampati gli spagnuoli e con quei giri li evitava per non venire arrestata.
Tre ore dopo i quattro cavalieri giungevano a poche centinaia di passi dalle massicce mura della Ciudad.
Than-Kiú, aveva con una violenta strappata, arrestato il destriero. Alcuni spari erano echeggiati al di là dei bastioni, seguiti dalle grida furiose di:
– Viva i tagalos!… Morte agli spagnuoli!…
La giovane era diventata pallidissima, come se tutto il sangue le fosse ritornato al cuore.
– Troppo tardi? – chiese Romero, che l’aveva raggiunta.
– Sí, – rispose ella con voce soffocata, guardandolo fisso.
– Andiamo a morire coi fratelli, – disse il meticcio, con voce risoluta. – Avanti!… Viva la libertà!…
– Sí, andiamo a morire, – mormorò il Fiore delle Perle con un sospiro. – La mia felicità doveva avere le durata d’un fiore reciso dalla pianta!
Capitolo VII. LA CONGIURA DI MANILLA
Il colpo di mano ordito dalle società segrete chinesi, spalleggiate dagl’indigeni manillesi, dai meticci e dai fieri malesi, era stato tentato nel momento in cui Romero e Than-Kiú giungevano presso i bastioni della capitale.
Quell’ardita mossa aveva per iscopo, come aveva detto la giovane chinese, di impedire al generale Polavieja, comandante supremo delle truppe spagnuole operanti contro gl’insorti accampati al sud della capitale, di assalire Cavite che era il quartiere generale dell’insurrezione e la cui caduta poteva scoraggiare e avvilire le bande dei patriotti.
Hang-Tu, il valoroso chinese, era stato l’anima della congiura. Sapendo di poter contare sui gendarmi di razza indigena che anelavano l’istante di rivolgere le armi contro i loro superiori per gittarsi di poi nella campagna e raggiungere le bande insorte di Bulacan a di Cavite, nel pomeriggio del 25 febbraio 1897, aveva dato convegno ai congiurati nei dintorni della caserma, per poi rovesciarli nella vie della Ciudad, approfittando del momento in cui la popolazione bianca si trovava nelle sue abitazioni a digerire tranquillamente il pasto serale.
I ribelli non erano numerosi, ma bene armati e risoluti a tutto. Erano circa trecento, reclutati fra i piú robusti tagali di Binondo e Santa Cruz, e fra i piú arditi chinesi del porto; ma sapevano di poter contare sulla numerose colonie di gente di colore, abitanti nei sobborghi e soprattutto sui malesi, gente valorosa e indifferente alla morte.
Erano circa le 6, quando i congiurati, che fino allora si erano accontentati di passeggiare dinanzi