Le stragi delle Filipine. Emilio SalgariЧитать онлайн книгу.
ma i vincitori del mattino, alla sera venivano oppressi dalle truppe rimaste fedeli alla bandiera spagnuola e tradotti al patibolo o mandati in esilio.
Alcuni anni piú tardi, un secondo tentativo non ebbe miglior fortuna, ed i patriotti finirono quasi tutti sotto le palle delle truppe e della popolazione bianca.
Il sangue di quegli insorti non era stato però sparso inutilmente. Le tre razze di colore, stanche di promesse non mantenute, di riforme male concepite, insofferenti del secolare disprezzo dei conquistatori e dell’orgoglio castigliano, ed incoraggiati dai successi degli insorti cubani, verso la fine del 1896 ordirono la grande congiura che doveva scoppiare come un colpo di fulmine e sorprendere la Spagna, tanto piú che nessuna cosa l’aveva fatta sospettare.
Il primo colpo avrebbe dovuto riuscire mortale alla potenza spagnuola, senza la confessione d’una donna di colore. Non si trattava dell’organizzazione di poche bande armate, ma d’un colpo di mano entro le mura della capitale e che doveva costare la vita a tutta la popolazione bianca.
Romero Ruiz, uno dei piú ricchi piantatori di Luzon, un uomo di valore e di genio, laureatosi ingegnere in Europa, l’aveva organizzato e preparato, quantunque non s’ignorasse che amava una fanciulla bianca, la Perla di Manilla, figlia di uno dei piú valorosi ufficiali del presidio spagnuolo, aiutato da Hang-Tu, uno dei capi piú potenti e piú fieri della colonia chinese, gran maestro delle associazioni del Lotus bianco, del Giglio d’acqua e del Tien-Tai, ed uno dei piú ardenti partigiani della libertà delle isole.
La morte del generale Blancos, comandante supremo delle forze spagnuole, quantunque combattuta da Romero che non voleva inaugurare l’insurrezione con un assassinio, era stata decretata dal partito giallo.
Un malese al suo servizio doveva ucciderlo a tradimento, ma la comparsa di un certo numero di servi che avevano portate con loro le armi dei padroni, avevano destati i primi sospetti.
Le autorità spagnuole, avvertite della trama ordita da un canapaio prima, poi da un vecchia malese che aveva narrato ogni cosa al suo confessore, non si erano lasciate sorprendere.
Mentre il governatore faceva arrestare centinaia di congiurati, un impiegato superiore ed un avvocato armarono prontamente due squadroni di volontari i quali, colla loro fermezza, s’imposero alla popolazione di colore che stava per cominciare la lotta.
Il colpo era fallito prima che scoppiasse, Romero e Hang-Tu, protetti da amici, con una pronta fuga avevano avuto il tempo di lasciare la città, quando già era stata decretata la loro morte, riparando a Canton.
Ma mentre si fucilavano o si deportavano gli arrestati, la rivolta si era estesa fuori Manilla, nonostante lo scarso numero dei ribelli.
Il primo colpo era stato portato contro Calnacan, località distante due sole leghe dalla capitale, ma il drappello dei congiurati era stato subito respinto.
Formato per lo piú di malesi sanguinarii, aveva preso la rivincita sul monastero a cui apparteneva il frate che aveva accolta la delazione della vecchia malese. Uccisa la delatrice, applicata la pene del ling-chi al suo confessore e trucidati o annegati gli altri, si era sbandata per sollevare le popolazioni di Bulacan, Pampagan, Laguna, Nueva Ecija, Batangas e Cavite.
Pareva che le forze spagnuole del generale Blancos, messesi tosto in campagna, avrebbero dovuto soffocare subito quel primo moto insurrezionale, tanto piú che i capi erano stati o fucilati o deportati o costretti a cercare riparo all’estero, ma l’idea della libertà e l’odio secolare contro la razza spagnuola avevano messe profonde radici.
In pochi giorni quelle poche centinaia d’insorti erano diventate migliaia. La rivolta avvampò come un incendio intorno a Manilla, facendo il suo centro in Cavite Vieja ed in Bulacan.
Gl’insorti che trovavano nei municipii dei preziosi alleati e nella gendarmeria, la cui riforma aveva aperto l’adito ai meticci ed agli indigeni, dei valorosi compagni, non fuggivano piú ma combattevano con ferocia.
Lotte sanguinose erano già avvenute negli ultimi mesi del 1896 e verso la metà del febbraio 1897, ed atrocità inaudite erano state commesse d’ambo le parti, quando deludendo le crociere della flotta spagnuola e sfidando la fucilazione a cui erano stati condannati dal consiglio di guerra, presieduto dal maggiore d’Alcazar, ricomparvero i due primi campioni della sommossa: Ruiz Romero e Hang-Tu. . .
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Il meticcio, lasciato il chinese sul molo di Binondo, s’avanzava lentamente verso il ponte, col viso mezzo nascosto nell’ampio mantello infioccato e la destra sul manico della lunga ed affilata navaja.
Era triste e cupo. Quel colloquio che un giorno avrebbe ardentemente desiderato, non gli sorrideva in quella notte in cui stava per partire e combattere forse contro il padre della fanciulla amata e contro i compatriotti di lei. Quale amore disgraziato era il suo, lottante per la libertà della terra natia ed i palpiti del cuore!… Che tenebroso avvenire gli si preparava senza le piú lontane speranze d’un sorriso, d’un raggio di luce!
Quand’anche l’insurrezione avesse trionfato; quand’anche gli odiati oppressori venissero vinti, chi avrebbe dato a lui la fanciulla che amava?… Avrebbe il padre di lei, fiero nemico dei ribelli, il piú orgoglioso dei castigliani, accordato il perdono al condannato a morte, al capo forse piú possente dell’insurrezione?… O non avrebbe, per la libertà delle isole, infranto anche l’affetto della Perla di Manilla che pur, sino allora, aveva resistito a tutto?… Avrebbe ella avuto il coraggio di volere bene al nemico piú formidabile della sovranità spagnuola, su quelle terre del Grand’Oceano?…
– È triste, è triste, – ripeteva Romero , seguendo il filo dei suoi dolorosi pensieri. – La patria m’infrangerà l’anima e farà di me il piú infelice degli uomini, ma Romero Ruiz non tradirà il vessillo dell’insurrezione, per quanti martirii possa costare al suo povero cuore. D’altronde la morte la cercherò e presto tutto sarà finito; tale doveva essere il destino mio. Cerchiamo di essere forti in questo colloquio che forse sarà l’ultimo. Povera Teresita!… Meglio sarebbe stato che i nostri sguardi mai si fossero incontrati.
Soffocò un sospiro ed affrettò il passo. Al palazzo di città suonavano le undici e doveva percorrere parecchie vie prima di giungere all’abitazione del maggiore d’Alcazar.
All’estremità del ponte, dinanzi alla porta della Ciudad, vegliavano due sentinelle, essendo state raddoppiate le guardie dopo i primi moti insurrezionali i quali potevano avere un contraccolpo anche nella capitale, dove numerosissimi erano ancora i tagali, i chinesi ed i meticci, ma Romero passò risolutamente dinanzi a loro, certo di non venire riconosciuto, specialmente con quell’oscurità.
Non poté però sfuggire ad una interrogazione dei due soldati.
– Dove vi recate a quest’ora? – gli fu chiesto.
– Dal maggiore D’Alcazar, – rispose il meticcio risolutamente.
– Siete atteso?
– Sí, ed ho fretta.
– Passate.
Il meticcio entrò nella Ciudad con passo affrettato, ma prima di voltare l’angolo delle prime case si guardò alle spalle per accertarsi che non era seguito. Tranquillizzato da quel lato, s’inoltrò attraverso una serie di vie piuttosto strette, ma fiancheggiate da grandi edifizii d’aspetto severo, quasi tetro.
La Ciudad è la città militare dove risiedono le truppe e la popolazione bianca, anzi la popolazione veramente spagnuola.
È una vera fortezza, cinta di bastioni giganteschi ed angolosi, difesi da ampi fossati, ma male tenuti, piú pieni di liquido fangoso che d’acqua e coperti di piante palustri, con sei sole porte e muniti di ponti levatoi ed un forte d’aspetto minaccioso: quello di San Giacomo.
Le vie della città hanno un aspetto assolutamente malinconico, niente attraente per gli europei che sono di nazione spagnuola, quantunque siano per lo piú larghe, dritte, ombreggiate di piante coperte di erbe che nessuno si cura di estirpare.
Quei palazzoni dalle nere muraglie, screpolati dai violenti terremoti del 1645, 1796, 1852, 1860, 1864 e quello ultimo del 1879, quelle immense e numerose chiese, quei monasteri