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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2. Alessandro ManzoniЧитать онлайн книгу.

Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2 - Alessandro Manzoni


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scherni più e più lo aizza al malfare; un zio, che atterrisce un provinciale di cappuccini e lo forza a mandar cento miglia lontano un buon frate, che voleva opporsi al nipote, perchè tanto male non mandasse ad effetto; una signora, fatta monaca per forza, che rompe sfacciatamente i suoi voti, che fa uscire di vita la sua conversa, la quale si è accorta della sua tresca, e che finalmente consegna, perchè ne sia fatto scempio d'iniquità, a quel birbo signorotto un'innocente fanciulla, a lei sotto la fede dell'ospitalità, o sotto la parola d'onore affidata; una fanciulla imbecille, che trema al bene e al male e che crede di aver fatto voto di verginità perchè si è messa una corona al collo; uno scimunito lanaro, che mentre dovea fuggire il potente che lo inseguiva, si ubbriaca in un'osteria e a tutti racconta dall'a fino alla z le cose sue; un signore, anche più birbone dell'altro, che fa d'ogni erba un fascio, e che per le lacrime di una ragazza (e chi sa quante ne aveva rubate, e alle lacrime di quante mai aveva insultato!) diviene un agnello? Basterà forse il contrapporre a tanto male e a tanta sciocchezza la vera carità e franca di un buon cappuccino, e l'angelico carattere di un santo arcivescovo? No davvero: chè, pur troppo, nella gioventù gli esempi del male fanno sì forte impressione, che non bastano a cancellarla, cento mila volte duplicati esempi di bene. Ed è troppo grave errore e troppo nociva cosa il dipingere agli uomini, e specialmente ai giovani, le scelleraggini, e le conversioni al bene sì repentine e sì facili, che essi possano trarre per conseguenza: —Operiamo pur male a nostro talento quanto ci piace, alla fine, quando saremo stanchi, ci volgeremo a Dio, ed egli non ci ributterà, purchè tenghiamo sempre sopra il letto l'immagine del Crocefisso e della Madonna. – Queste son dottrine che rovesciano ogni legge divina e umana e che riducono la società ad una selva di bruti, ove chi ha più denari, e in conseguenza più forza, opprime, strazia e divora il suo fratello, insultando all'umana giustizia; persuaso che la divina non ha saette per coloro che hanno fisso in cuore di ritornare a Dio quando saranno tutte sbramate le voglie e tutte spente le passioni. Oh! la divina morale!»47.

      III

      Del romanzo si occupò anche un valentissimo giureconsulto, il prof. Giovanni Carmignani, e lo fece soggetto di un dialogo tra un critico e un giornalista48. Il giornalista loda sempre e sempre difende; il critico biasima e va cercando addirittura il pelo nell'ovo; finisce però col ricredersi, e conchiude: «Eccomi pure a me:

      …il finto

      mio rigore abbandono.

      E sapete perchè mi piacque essere rigoroso! perchè nel romanzo mi punse la frase derisoria ch'io c'incontrai contro quel Metastasio, co' versi del quale chiudo adesso il nostro colloquio, non essendomi sembrato, che l'anima più drammatica, che abbia natura prodotta, dovesse deridersi come pittrice di eroi paragonabili a gente da piazza e da trivio. Del resto, io sono d'avviso, che il romanzo è una originale e classica produzione; che son sogni e ciance i supposti plagi dal Walter Scott nelle Prigioni di Edimburgo e ne' Puritani di Scozia; che l'A. ha finalmente dato un romanzo alla prosa italiana e ha fatto cessare l'antico e giusto rimprovero dell'Arteaga allorchè nelle sue note alla dissertazione del Borsa rinfacciava alla Italia di non avere un S. Real ed un Marmontel; che, prescindendo da certa mancanza di più verisimil cemento nella struttura dell'azione del romanzo, il merito della esecuzione vince sempre e riscatta qualunque più minuto difetto dell'opera. E poichè incominciai col mostrarmi nemico del romanticismo, ingenuamente vi dico, che se vi ha componimento nel quale quel genere possa essere, onde servire all'effetto, adottato, egli è certamente il componimento in prosa e il romanzo».

      De' tanti appunti fatti dal critico a' Promessi Sposi, uno mi sembra degno di nota. Toccando della «mala voglia» con la quale Lucia «si presta a sorprendere il parroco», trova che l'espediente del matrimonio clandestino «non era certo peccaminoso», ma «di tale evidente giustizia, che, prescindendo dalla logica dell'amore, se ella ne aveva pure per Renzo, doveva a lei dimostrarla il rifiuto d'un parroco ignorante, pauroso, avaro e usuraio, come l'Autor lo dipinge». Poi, in nota, aggiunge: «Le denunzie erano già fatte e il matrimonio non poteva dirsi più clandestino, non rilevando molto la sua celebrazione in luogo non sacro. Sancez, De matrim., lib. III, disp. 15, n. 20. E qualora le denunzie non fossero state fatte, i migliori moralisti son concordi nel dire, che quando il matrimonio è ritardato dall'immaginevole rifiuto del parroco, non è peccaminoso il sorprenderlo, per contrarlo. Paul. Gabriel. Antoine, Theol. Moral. univ. tractat. de matrimonio, § 13, not. 3. Ecco dunque un romanzo, il qual poggia tutto sopra un errore di gius canonico e sopra un error di morale».

      Al Carmignani è però sfuggito un altro piccolo scappuccio del Manzoni. Fa del P. Cristoforo il confessore di Lucia; ora, la giovane fidanzata, nel 1628, non poteva confessarsi da lui, perchè «i cappuccini di quei tempi, giusta l'inibizione delle loro costituzioni, tolta solo qualche tempo dopo, non confessavano assolutamente persone estranee all'Ordine49».

      Un critico milanese, a cui piacque di restare anonimo50, prese a leggere i Promessi Sposi; e sebbene, durante la lettura, non venisse «giammai scemandosi» in lui la «stima grandissima» che aveva per «quel celeberrimo autore, di cui tanto è vulgata la fama, che non pur nell'itala terra, ma in tutte le più colte nazioni è molto apprezzato»; nel romanzo trovò quella «imperfettibilità», che è «indivisibile compagna de' figliuoli di Eva». Pensò dunque di «schiccherare un foglio d'alcuni cenni critici intorno a ciò che di meno pregevole e di meno consonante al rimanente» vi aveva rinvenuto; manifestando nel tempo stesso «le bellezze ancora dell'opera, benchè con minore verbosità dei difetti». Lasciando in pace le «bellezze», diamo un saggio dei «difetti» che la fantasia del critico nota: «Renzo ed Agnese volevano che Lucia parlasse di che le avvenne con don Rodrigo: Ora vi dirò tutto, rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiale. Se l'A. laddove dipinge Lucia vestita nel giorno nuziale me l'ha presentata, oltre agli spilli e al rimanente, con due calze vermiglie, con due pianelle di seta a ricami, e mi ha passato sotto silenzio il grembiale, io fui necessitato di attingere ch'ella in quel dì non lo cingesse. Adesso poi veggio che appunto in quel medesimo giorno, e non ancora tramutata di panni, si terse le lagrime col grembiale. Com'è questa faccenda?.. O Lucia aveva il grembiale, o Lucia non lo aveva; una delle due. Se lo aveva, inavvedutamente l'Autore: 1.º ha trascurato di farlo conoscere al proprio leggitore; 2.º gli ha dato verun prezzo, facendogli esercitare l'officio del moccichino, mentre, se a tutto l'abito doveva aver consonanza, saria pur valuto qualche cosa. Se all'incontro non lo aveva dapprima, o l'A. ha preso adesso un abbaglio, o fa duopo argomentare, non che inserire negli annali, che = uno spirito, nel giorno 8 di novembre dell'anno di nostra redenzione 1628, ha cinto di un grembiale Lucia Mondella, mentr'essa stava per favellare di don Rodrigo con Agnese sua madre e con Renzo Tramaglino suo innamorato =». Eccoci ad Agnese, che, in casa del sarto, si abbocca col Cardinal Federigo e svela le colpe di Don Abbondio. «Udire una femmina» (nota il critico) «inveir quasi, e dinanzi al Cardinale, e contra il proprio curato, e perchè? perchè questi, onde scansare di perir tosto, ha prorogato il giorno delle nozze: ov'è colui che non saria preso da escandescenza contro della donna crudele, e non cercherebbe di turargli la bocca e di troncargli nella strozza le parole, ove la donna non fosse una larva che lo eludesse? Ma la passione del leggitore vuole pur trovare il suo sfogo; sicch'essa, riversandosi almeno sopra le pagine istesse, che ha dinanzi, chi sa quante insieme a quelle ne andranno vittima! Il mio tirare di penna è sicuramente il minor male».

      Giuseppe Veladoni riconosce «che le menti di tutti gli italiani, e si potrebbe anche dire di molta parte d'Europa, restarono sopraffatte di meraviglia, da entusiasmo e da vero diletto» a leggere i Promessi Sposi. «Una tanta opera… non poteva esser pensata e scritta che da un profondo filosofo, da un vero conoscitore del cuore umano e da una penna condotta dai sentimenti più vivi di religione e di patria… Per me, credo impossibile che siavi uomo di cuore che non abbia da rimaner commosso sino alle lagrime in più e più luoghi di questa mirabile prosa… Essa è un libro che non perirà mai e farà sempre grande onore all'Italia del secolo XIX. Ma che? Non ha dunque difetti? Sì, ne ha: ma tutti compensati da una straordinaria bellezza e sodezza, così di pensieri, come di stile, considerati anche in sè stessi. Sono, per esempio, moltissime le parti che potrebbero essere capaci di utile restringimento, e queste per non raffreddare di troppo


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<p>47</p>

Questo «sunto» si legge in una recensione che il Salvagnoli Marchetti fece delle Prose scelte del principe don Pietro Odescalchi, e che inserì nel Giornale Arcadico, tom. 42, aprile-giugno 1829, pp. 95-109. La recensione e il «sunto» gli attirarono sulle spalle alcune sferzate della Biblioteca italiana [tom. 55, luglio 1829, pp. 29-31], che lo fecero talmente andare in furore, da scrivere: «a ingiurie sì fatte, quali sono le vostre, meglio si converrebbe, se fosse lecito, rispondere con la spada che con la penna». Cfr. Giornale Arcadico, tom. cit., pp. 355-364.

<p>48</p>

Nuovo Giornale de' letterati, di Pisa, tom. XV. Letteratura, scienze morali e arti liberali [1827], pp. 215-232 e tom. XVI. Letteratura, ecc. [1828], pp. 64-93.

<p>49</p>

P. Felice da Mezzana cappuccino, Cenni sul P. Cristoforo del Manzoni, Crema, tip. S. Pantaleone di L. Meleri, 1899; p. 6.

<p>50</p>

Sui Promessi Sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, ragionamento critico di Don Anonimo, autore di varj opuscoli pubblicati colle iniziali P.º G.º S-P.º, Milano, coi torchi di Omobono Manini, dicembre 1827; in-16º. di pp. 64.

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