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Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3. Джек МарсЧитать онлайн книгу.

Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3 - Джек Марс


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pausa. “Dopo che avremo salvato quegli uomini, e come ha detto il generale si saranno calmate le acque, credo che dovremo rivedere la moratoria sulla trivellazione, e chiarire che il divieto di perforare è valido in assoluto, sia da sopra che da sotto il mare.

      “Inoltre, se è necessario intraprendere un’operazione militare, dobbiamo accertarci che sia sotto il controllo civile all’inizio alla fine. Senza offesa, generale, ma voi del Pentagono avete l’abitudine di usare i cannoni per liberarvi dei moscerini. Abbiamo saputo tutti di troppi matrimoni nel Medio Oriente che sono stati annientati dai droni.”

      Sembrò che il generale fosse sul punto di dire qualcosa in risposta, ma poi si trattenne.

      “Può farlo, generale Stark?” chiese Dixon. “A prescindere dalle risorse militari coinvolte, può garantire il controllo e la partecipazione di un’agenzia civile durante l’intera operazione?”

      Stark annuì. “Sì, signore. E conosco l’agenzia civile perfetta per questo compito.”

      “Allora proceda,” ordinò il presidente. “E se può, salvi gli uomini sulla piattaforma.”

      CAPITOLO TRE

      10:01 p.m. Ora legale orientale

      Ivy City

      Zona nord-est di Washington, DC

      Un uomo robusto sedeva su una sedie pieghevole di metallo, in un angolo silenzioso del magazzino vuoto. Scosse la testa con un gemito.

      “Non farlo,” supplicò. “Ti prego, non devi farlo.”

      Era bendato ma nonostante lo straccio che gli nascondeva parzialmente il viso, si vedeva che era coperto di lividi e ferite. Aveva la bocca gonfia. Il suo volto era lucido e sporco di sangue, e sulla schiena la sua maglietta bianca era macchiata di sudore. C’era una macchia scura sul cavallo dei suoi pantaloni, dove se l’era fatta addosso appena qualche istante prima.

      Un fitto intreccio di tatuaggi si alzava dai polsi fino alle maniche della sua maglia. Sembrava un uomo robusto, ma aveva le mani legate dietro la schiena e le sue braccia erano bloccate alla sedia con pesanti catene.

      Era a piedi nudi e anche alle sue caviglie aveva dei ceppi metallici. Era legato tanto stretto che se anche fosse riuscito ad alzarsi, invece di camminare avrebbe dovuto avanzare a saltelli.

      “Che cosa non devo fare?” domandò Kevin Murphy.

      Murphy era alto, snello e muscoloso. I suoi occhi erano duri e aveva una piccola cicatrice sul mento. Indossava un’elegante camicia azzurra, pantaloni scuri e lucide scarpe di cuoio italiano. Si era arrotolato le maniche sugli avambracci. Non c’era niente di sgualcito, sudato o insanguinato nel suo aspetto. Non sembrava aver fatto il benché minimo sforzo fisico. In effetti, dava l’impressione di un uomo invitato a cena in un ristorante costoso. L’unico dettaglio che stonava erano i guanti di pelle nera che portava sulle mani.

      Per qualche istante, Murphy e l’uomo sulla sedia parvero statue, menhir in un sito funerario primordiale. Le loro ombre si stagliavano in diagonale nella cupa penombra giallastra di quel piccolo angolo del grande magazzino.

      Murphy si allontanò di qualche passo sul pavimento di pietra. Il rumore riecheggiò nello spazio cavernoso.

      Stava provando una strana combinazione di emozioni. Da una parte, si sentiva rilassato e calmo. Aveva appena iniziato con l’interrogatorio e aveva tutto il tempo del mondo. Nessuno sarebbe entrato in quel posto.

      Fuori dalla cancellata di quel magazzino c’era una baraccopoli. Era un deserto di cemento, in cui squallidi negozietti, rivendite di alcolici, agenzie di cambio e banchi di pegno erano ammassati insieme. Gruppetti di donne che stringevano buste di plastica aspettavano alle fermate degli autobus durante il giorno, mentre di notte uomini sbronzi bevevano birra e vino economico agli angoli delle strade.

      In quel momento, riusciva a sentire i rumori del quartiere: le auto di passaggio, la musica, le grida e le risate. Ma si stava facendo tardi e presto sarebbe calato il silenzio. Persino in quella zona la gente andava a dormire a una certa ora.

      Quindi sì, nell’immediato futuro, aveva tempo. Ma in senso più ampio, il tempo non era suo amico. Era un ex agente della Delta Force e dipendente in prova del Gruppo d’Intervento Speciale dell’FBI. Si stava distinguendo sul lavoro e durante il suo primo incarico aveva persino preso parte in maniera apparentemente brillante a una feroce sparatoria a Montreal.

      Quello che nessuno capiva era quanto fosse stato davvero bravo. Aveva fatto un abile doppio gioco, e prima dello scontro aveva convinto l’ex agente della CIA Wallace Speck, il cosiddetto ‘Signore Oscuro’ in persona, a mandargli due milioni e mezzo su un conto anonimo a Grand Cayman.

      Ora Speck era in una prigione federale, condannato alla pena di morte. E ciò gettava un’ombra sulla vita di Ken Murphy. E se l’ex agente avesse svelato tutti i suoi segreti ai suoi carcerieri? In quel caso, che cosa gli avrebbe detto?

      Speck aveva saputo chi era Kevin Murphy?

      “Non uccidermi,” lo pregò l’uomo sulla sedia.

      Lui sorrise. Vicino alla sua vittima c’era un’altra sedia. Sopra vi era stesa la sua giacca sportiva, e sotto l’indumento c’era la sua fondina con una pistola. Nella tasca dei pantaloni aveva un grosso silenziatore che si adattava alla canna dell’arma come un guanto.

      Fatti l’uno per l’altra. Come diceva quella vecchia pubblicità? Perfetti insieme.

      “Ucciderti? Perché dovrei farlo?”

      Quello agitò la testa iniziando a piangere. Il suo torace muscoloso si sollevò per i singhiozzi. “Perché è per questo che ti hanno mandato.”

      Murphy annuì. Era vero.

      Fissò l’uomo. Bastardo piagnucoloso. Detestava quelli come lui. Verme. Era un assassino a sangue freddo. Un bullo. Si credeva un vero duro, con le parole BANG e POW! tatuate sulle nocche.

      Era il tipo d’uomo che ammazzava persone innocenti e innocue, in parte perché era quello che era pagato per fare, ma anche perché era facile e gli piaceva farlo. E poi, non appena si ritrovava davanti qualcuno come Murphy, andava in pezzi e iniziava a supplicare. Anche lui aveva ucciso molta gente, ma per quanto ne sapeva non aveva mai fatto fuori un innocente né un civile. Era specializzato nell’omicidio di uomo duri a morire.

      Ma quello?

      Sospirò. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto farlo strisciare a terra come un verme.

      Scosse la testa. Non gli interessava. Aveva solo bisogno di un’informazione.

      “Qualche settimana fa, proprio quando il nostro caro presidente ormai deceduto è sparito, hai ucciso una giovane donna di nome Nisa Kuar Brar. Non negarlo. Hai anche fatto fuori i suoi due figli, una bimba di quattro anni e un neonato. La bambina indossava un pigiama di Barney il dinosauro. Sì, ho visto le foto della scena del crimine. Le persone che hai ucciso erano la moglie e i figli di un tassista, tale Jahjeet Singh Brar. L’intera famiglia era di religione Sikh, e veniva dal Punjab, in India. Sei riuscito a entrare nel loro appartamento a Columbia Heights dichiarandoti un poliziotto di nome Michael Dell. Che buffo nome. Michael Dell. Lo trovi divertente?”

      L’uomo scosse la testa. “No. Assolutamente no. Non c’è niente di vero. Chiunque te l’abbia detto è un bugiardo. Ti hanno mentito.”

      Il sorriso di Murphy si allargò. Fece spallucce, trattenendo una risata.

      Ma che tipo…

      “Me l’ha detto il tuo complice. Il suo nome d’arte era Roger Stevens, ma in realtà si chiamava Delroy Rose.” Si fermò e ispirò a fondo. A volte si ritrovava un po’ troppo su di giri in situazioni come quella. Era importante che rimanesse calmo. Doveva solo ottenere la sua informazione, nient’altro.

      “Ti fa scattare un campanello?”

      Il tizio incurvò le spalle, singhiozzando piano, tremando per tutto il corpo.


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