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Centro Storico - Porta Palazzo E Dintorni 1990. Guido PagliarinoЧитать онлайн книгу.

Centro Storico - Porta Palazzo E Dintorni 1990 - Guido Pagliarino


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oggi in notevole misura diverso e, secondo me, peggiore; dunque il titolo originale "Centro storico" è divenuto, richiamando l'anno di stesura del manoscritto, "Centro storico - Porta Palazzo e dintorni 1990".

      Un’altra cosa: s’era supposta a suo tempo un’influenza sul poema dell’"Antologia di Spoon River" e, inoltre, del Pavese di "Lavorare stanca"; così, precisamente, aveva commentato il mai abbastanza compianto Giorgio Bárberi Squarotti in un suo biglietto autografo:

      Caro Pagliarino

      ho letto con vivo interesse questa galleria di ritratti di personaggi di un quartiere torinese, quasi una specie di "antologia di Spoon River" di vivi (con qualche morto), raccontata dall'autore - testimone nel verso di ampio respiro, ben modulato e scandito, da cui i volti umani, le tragedie, le situazioni paradossali e grottesche vengono fuori con efficace rilievo. Spesso l'attacco fa pensare a Pavese: con un che di ben più cupo e desolato, tuttavia.

      Giorgio Bárberi Squarotti

      Sull’opera “Spoon River” mi trovo d’accordo, sebbene la mia lettura del Lee Masters precedesse di quasi tre decenni la redazione di “Centro storico” e durante la stesura non l'avessi in evidenza; tuttavia, a cose fatte, non ecludo affatto che il mio inconscio l'avesse presente; quanto invece al Pavese di “Lavorare stanca”, con quei suoi versi che a me, amante del ritmo, pur senza contestarne affatto il valore, tutt’altro, mi suonano un po’ prosastici, penso che quel grande non c’entri, se non per la piemontesità, tanto come carattere di fondo, quanto per la comune, intenzionale traslazione in italiano, qua e là, di forme della lingua piemontese, ciò che però non è invenzione né sua né mia, ma prassi dell’ormai quasi scomparso popolo subalpino autoctono; peraltro, pare proprio che il “Lavorare stanca” pavesiano dovesse a sua volta a Edgar Lee Masters.

      Inserisco in appendice al poema la prefazione di Sergio Notario alla prima edizione dell’opera, presentazione che originava da una posizione metafisica e ideologica diversa dalla mia; tuttavia, la capacità e l'umanità del prefatore avevano saputo cogliere sufficientemente bene il mio sentire, nonostante alcuni punti in cui si notava la lontananza di Sergio dal Cristianesimo; ad esempio, laddove affermava che il credente sente tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra, non mostrava d'aver chiara la distinzione fra dolore e male e il fatto che il cristiano non è affatto manicheo ma, al contrario, sente il peccato agitarsi in lui, e si veda cosa ne dice Paolo nella lettera ai Romani, 7, versetti18 e seguente: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”: per i cristiani è vero male solo il peccato, causa di dolore in ogni caso, mentre la sofferenza non sempre deriva dalla cattiva volontà di esseri umani, basti pensare a una malattia; ed è proprio qui che, a mio sentire, il Cristianesimo si distingue dalle altre religioni, col suo Dio ch’è uomo nel suo proprio Essere eterno e prova anche l’esperienza della vita materiale terrena entro la Storia (teologo medievale Duns Scoto1 ) assoggettandosi dunque a soffrire e morire a causa dell’altrui libera scelta (potenti del Sinedrio e del Tempio), rispettando la libertà concessa da Dio stesso a ogni essere umano. A un certo punto della prefazione il Notario parlava del miracolo d’una conversione, ma il lettore non cerchi quei versi, infatti li ho eliminati: da tempo li avevo avvertiti dolciastri; costituivano il vecchio finale nel quale il personaggio di Vincenzo il razzista diveniva credente e buono; adesso il poema si chiude sulla stessa situazione dell’inizio, quella d’un Vincenzo maligno, come normalmente succede nonostante le preghiere altrui, perché Dio rispetta la libertà di coscienza donata a ciascun essere umano, e l’assassinio da lui non impedito di Gesù ne è caso lampante. Sono molto riconoscente a Sergio Notario, poeta oltre che critico, musicista e tant’altro ancora, che, non limitandosi a scrivere la prefazione, aveva continuato a seguire l'opera per diverso tempo dopo la stampa, con presentazioni e letture pubbliche.

      G.P.

       C ENTRO STORICO - PORTA PALAZZO E DINTORNI 1990

       Racconto corale in versi

      Vincenzo una volta faceva le critiche ai napoli

      e ladri puttane e assassini son tutti dei loro,

      e appena ci parli ti cavano fuori il coltello,

      e prima gli vengono mosci a implorare un lavoro

      e quando li ha assunti, gli fanno tre mesi di mutua,

      che dicono ai nostri «Torino è un paese di vacche»

      e, invece, son loro che ciànno le donne più lasche,

      appunto le chiudono in casa nei loro paesi,

      e quando poi sono nel largo e hanno l'uomo distante,

      lo fanno con tutti di sopra, di dietro e davanti.

      Da quando suo figlio ha sposato una donna del Sud,

      Vincenzo dei napoli dice né bene né male.

      Fortuna che adesso a Torino ci sono i marocchi,

      così nuovamente ha qualcuno cui fare le critiche.

      Abdùl Satelèch prega Dio su un tappeto verzino

      che fu di suo padre e del padre del nonno del padre.

      Da quando è venuto a Torino fuggendo dall'Africa,

      il suo tappetino lo tiene ravvolto alla vita

      e solo lo spiega a pregare rivolto alla Mecca.

      Abdùl Satelèch sta su un'auto sul corso Valdocco

      trovata relitta e stargata e vi mangia e vi dorme:

      non vuole ammassarsi in soffitte affittate da cinici

      a più di duecento migliaia di lire per mese,

      tra gente che pecca sfidando la Legge, che spaccia

      o fa le rapine alle donne e agli anziani indifesi.

      Lui tira il carretto per conto di qualche ambulante

      e fa le consegne dei fiori per Lucio il fioraio

      – a volte, qualcuno lo chiama a portare dei mobili

      e allora guadagna quel giorno tre volte di più – .

      La sera lo vedono in tanti che stende il tappeto

      tra gli alberi in mezzo alle àuto e si volge al Signore,

      né più lui s'accorge di voci, di rombi, di clacson,

      di gente che attorno lo guarda ridendo di lui.

      Poi mangia da solo e la notte la passa sull'auto;

      gli stracci e i giornali d'inverno gli bastano appena

      e quasi congela, ma Abdùl chiede niente a nessuno.

      Quest'uomo, di certo, è nel cuore dell'unico Dio.

      Volevano fargli la pelle laggiù al suo paese

      perché non taceva di fronte ai soprusi d'un capo;

      ma pure a Torino c'è gente che vuole che muoia:

      Omàr Salazìm gli ha proposto di vendere droga,

      e


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