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I Mostri Nel Buio. Rebekah LewisЧитать онлайн книгу.

I Mostri Nel Buio - Rebekah Lewis


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il radiatore scalciò, rise di sé. Era soltanto una vecchia casa. Non c’era un mostro appostato nell’armadio là dentro o nel suo appartamento. I mostri non esistevano. Sentendosi una sciocca, Phoebe riprese il suo spirito e uscì dalla stanza. Era stato bello avere un momento per sé senza gente attorno, ma non era pronta a continuare di fare finta di essere felice quando non aveva idea se Adam avesse intenzione di arrivare. Il rifiuto aveva effettivamente rovinato la serata.

      Perché non riusciva a trovare qualcuno che l’apprezzasse? Che volesse andare in giro e fare delle cose? Che rispondesse alle sue chiamate? Non sembrava troppo chiedere di essere cercata, desiderata. Avere l’idea che il mondo di qualcuno non sarebbe stato completo senza di lei.

      Phoebe ricacciò indietro le lacrime, recuperò il cappotto e scese le scale verso la porta di ingresso. Salutò in maniera frettolosa e si precipitò alla sua auto. Una volta dentro, lasciò uscire le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento e mandò un breve messaggio per rompere con Adam. Ne aveva abbastanza di questa merda. Era il momento di vivere per sé stessa. Se lui non la voleva, aveva finito di aspettare che lui cambiasse idea. Era finita tra di loro e sperava che si sarebbe arrabbiato quando avesse visto il messaggio.

      Quando sollevò il capo, un movimento nelle ombre attirò la sua attenzione tra gli alberi davanti al lato destro della sua auto. Strizzò gli occhi. Un grosso animale era fermo nel buio, nascosto dalla vista completa. Aveva la forma di un cervo e riusciva vagamente a distinguerne le corna. Oh, essere selvaggi e non preoccuparsi di nulla se non di ciò che la natura intendeva. Phoebe mise in moto l’auto e i fari illuminarono l’area dove prima stava il cervo.

      Non c’era nulla.

      Capitolo II

      UOMINI. CHI NE AVEVA bisogno? Phoebe entrò nel suo appartamento e si chiuse la porta alle spalle con violenza. Mai stata più contenta di vivere al piano terra di quando la sua notte era stata una merda. Prima, si sarebbe tolta quei vestiti, poi avrebbe fatto una doccia e avrebbe mandato giù mezza vaschetta di gelato.  Forse non in questo ordine. Si lavò la faccia. Aveva dovuto accostare due volte perché aveva pianto così tanto che il mascara le si era infilato negli occhi.

      Phoebe tirò su col naso e percorse la piccola anticamera che portava al bagno e si pulì velocemente di quello che rimaneva del trucco. Si guardò allo specchio e si mise a piangere a dirotto. Tutti quegli sforzi per farsi bella per quello stronzo e lui non si era fatto vivo. Le aveva dato buca e non l’aveva chiamata per dirglielo o darle una ragione. Nemmeno un cazzo di scusa. La tradiva o semplicemente non la desiderava? Voleva sempre cambiarla. Tagliati i capelli. Non mangiare quel biscotto o ingrassi. Dovresti truccarti più spesso. Fatti sbiancare i denti. Hai mai pensato di rifarti il seno? Phoebe si strinse tra le braccia e cercò di trattenere una nuova ondata di lacrime. Adam non se le meritava.

      Rimase paralizzata mentre il rumore di passi delicati risuonava dall’altro lato della parete tra il bagno e la camera da letto. “Adam?” Si voltò, soffiandosi il naso in un fazzoletto di carta per poi buttarlo nel cestino. “Sei tu?”. Forse era venuto per farle una sorpresa… e farsi sbattere il culo fuori dal suo appartamento. Stronzo.

      Si avviò verso l’ingresso e raggiunse con una mano l’interruttore della camera da letto. Phoebe sbirciò dietro l’angolo. “Adam?”. La porta dell’armadio era spalancata in una stanza vuota mentre sapeva di averla chiusa prima di andare alla festa. Senza pensarci, corse verso il soggiorno per prendere il telefono e le chiavi. Non si fermò per chiudere l’appartamento, ma corse diretta all’auto.

      Una volta dentro, chiuse con violenza la sicura e chiamò la polizia.

      NON LE AVEVANO CREDUTO. Non c’era segno di effrazione e niente era stato rubato, per cui dissero che una chiave era l’unico modo in cui qualcuno si sarebbe potuto introdurre in casa e aprire l’armadio. Però Phoebe aveva sentito dei passi, ma non poteva dimostrarlo. Una donna poliziotto aveva notato il suo viso gonfio per le lacrime e le chiese se le era capitato qualcosa di traumatico, così le raccontò che Adam non si era fatto vedere alla festa e che aveva rotto con lui. Naturalmente, la conclusione fu che Adam aveva tentato di spaventarla e la poliziotta consigliò a Phoebe di passare la notte da un’amica e cambiare la serratura l’indomani mattina.

      Saggio consiglio, se quella fosse stata la realtà de fatti. L’avrebbe saputo se fosse stato Adam. Non si faceva problemi a farle una sfuriata se non era contento. Se gli fosse importato abbastanza di aver rotto con lei via sms, l’avrebbe sentito. Lui non avrebbe perso tempo a intrufolarsi nel suo appartamento per svago.

      Abbattuta, Phoebe rientrò nel suo appartamento, si liberò delle scarpe e si diresse in camera da letto. Voleva solo dormire. Lanciò un’occhiata al telefono mentre lo metteva sul caricatore. Notando di aver un messaggio da Adam, premette per aprirlo e il dolore le fece a brandelli il cuore. Non metteva in discussione la rottura. Non aveva nemmeno tentato di ragionare con lei. Tutto quello che aveva scritto era: “OK”. Due semplici lettere, nemmeno una parola per intero, era quello che Adam aveva dedicato per la fine della loro relazione.

      Non preoccupandosi delle luci, cominciò a spogliarsi. La parte superiore del vestito richiese un po’ di sforzo – più di quanto ne ce fosse voluto per indossarlo – ma ci riuscì. Poi lo fece volare nella cesta nell’angolo con un po’ più di aggressività di quanto volesse. Poi fu la volta della gonna e lei rimase in sottoveste e lingerie, che aveva indossato assolutamente per nulla.

      “Dovrei uscire e andare a letto con un completo sconosciuto per ripicca, Adam. Coglione.” Aprì il gancio della collana e se la tolse. Poi gli orecchini, poggiando entrambe le cose sul cassettone vicino alla borsetta. “Sono un disastro e a quanto pare non sono abbastanza attraente per tenermi un uomo, per cui chi mi vorrà mai?” Il suo riflesso le rimandava il broncio o lo avrebbe fatto se lei fosse riuscita a vedere la sua figura al buio. Il profilo della porta dell’armadio aperta dietro di lei era distinguibile però e lei le lanciò uno sguardo. “E tu”, disse con tono di accusa “Perché non rimani chiusa quando ti chiudo?”

      “Perché altrimenti non posso guardarti. Sia ben chiaro che ti voglio e accetterei di buon grado la tua offerta.”

      Rimase a bocca aperta allo specchio, incerta se le orecchie le stavano tirando un brutto scherzo o se le avesse dato di volta il cervello definitivamente. Non ci doveva essere una risposta. Prima di tutto, la sua invettiva era per scacciare la delusione parlando con sé stessa. Cosa del tutto normale, anche se un po’ da stupidi. La voce maschile che aveva sentito, però, non era affatto normale. Infatti, dopo che la polizia aveva setacciato ogni centimetro dell’appartamento e non aveva trovato nessuno nascosto, non avrebbe dovuto proprio esserci un uomo nel suo appartamento.

      Tutti pensieri logici. Perfettamente ragionevoli. Eppure, c’è un uomo nel mio armadio…

      Guardandosi attorno, strabuzzò gli occhi in direzione della voce. Chiunque fosse, aveva una voce profonda e roca e un accento strano. Decisamente straniero. “Chi c’è là?” Allungò la mano verso l’interruttore vicino al cassettone e l’accese. Non vide nessuno, ma la cabina armadio era più profonda di quanto potesse vedere da quell’angolazione. Phoebe cercò un’arma e afferrò un vaso di rose rosse. Non era molto, perché era di plastica e stoffa, ma lanciarlo verso un aggressore le avrebbe dato il vantaggio per scappare via “Ti avverto…”

      Andando in punta di piedi verso l’armadio, non sapeva cosa aspettarsi. La porta si apriva verso l’interno perciò la sospinse con la punta del piede finché la maniglia non urtò la parete. Nessuno era al suo interno a meno che non fosse nascosto dietro ai vestiti. Entrò, scalciando dietro ai vestiti. La porta si chiuse con violenza alle sue spalle. Con uno strillo, lasciò cadere il vaso, che fece solo un tonfo sul tappeto ai suoi piedi. Phoebe allungò una mano verso l’alto, armeggiando con la cordicella della luce e la strattonò quando la mano si strinse intorno al filo. Non successe nulla. La tirò con violenza ancora una volta con lo stesso risultato.

      “Cerchi questa?” L’uomo nell’armadio le afferrò una mano e le mise qualcosa nel palmo. La lampadina. Aveva svitato la lampadina e aveva aspettato per tenderle una trappola quando lei era entrata. Ma dove era stato


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