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Le Tessere Del Paradiso. Giovanni MongiovìЧитать онлайн книгу.

Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì


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Sapeva che il fato domina tutto: dai capricci delle correnti marine ai terremoti, dalle eruzioni del Mons Jebel50 all’alternarsi delle stirpi e dei governanti. Tuttavia, grazie al suo fisico e alle sue abilità, era scampato alla morte un paio di volte; adesso perciò si era convinto che al di là del destino egli potesse dir la sua in ciò che succede sotto il cielo. Vittore era il poveraccio più presuntuoso di Palermo e per tale motivo non tirava solo a campare, ma si dava da fare in tutto e per tutto per ribadire il proprio stato di uomo libero e fiero. Oltre al suo mestiere di pescivendolo e pescatore, quando imperversava la tempesta e le barche restavano a riposo sulla discesa per il mare, si recava sulle spiagge del contado per raccogliere le più belle conchiglie che le onde avevano vomitato sulla battigia. Ne faceva monili e piccole gioie, oggetti di modesto pregio destinati alle ragazze del popolo. Non c’era una sola persona tra la gente comune che non conoscesse Vittore, il “venditore di conchiglie”. Per via dei suoi modi, egli era inoltre l’amico di tutti gli uomini e il sogno di tutte le fanciulle illibate di Palermo.

      Gli ultimi giorni di agosto tutti i cittadini rimasero rinchiusi al di qua delle proprie porte e finestre, segregati a casa a causa del meteo avverso. Il forte vento scoperchiava i tetti, le copiose piogge allagavano le vie più basse e il mare grosso impediva a pescatori e marinai di prendere il largo. Un susseguirsi di temporali di fine estate che ogni pomeriggio si ripresentarono funesti, giungendo come tenebre dal mare e a volte prendendo le sembianze di vere e proprie trombe d’aria.

      Vittore, com’era solito fare, aspettò che vi fosse mezza giornata di tregua ed uscì per fare il pieno delle sue famose conchiglie. Si recò dunque in una delle calette che risultano schiacciate tra il mare e il fianco settentrionale del Bel Grin51, la “montagna vicina”, quella che domina Palermo con la sua ombra. Qui vide che le mareggiate avevano disseminato sulla spiaggia, pure a molti passi dalla battigia, una bianca distesa di gusci… preziosa madreperla da rivendere al mercato. Immerso tra le valve iridescenti delle ostriche, che avrebbe intagliato per farne medaglioni, e le complesse spirali dei gasteropodi, con cui avrebbe fatto dei ciondoli, sorrise, comprendendo che il bottino fosse ghiotto. Dopo alcuni minuti si accorse che in un angolo riparato della spiaggia, presso le rocce, era stato stipato un mucchietto di conchiglie pregevoli, le più grosse e belle viste quel giorno. Comprese che qualcuno fosse passato prima di lui, tuttavia, credendosi il padrone della spiaggia e del monopolio delle conchiglie, cominciò ad arraffarne quante ne poté.

      «Ehi, ehi!» urlò qualcuno.

      Adesso Vittore vide sbucare da dietro la macchia mediterranea due giovani donne. Una di queste veniva correndo per la trazzera che si districava tra le asperità ai piedi del monte.

      «Ehi, ehi!» urlò nuovamente questa.

      Vittore sembrava non sentirla e continuava imperterrito nella sua opera di scarto e raccolta.

      «Ci ho messo un’ora per trovare quei gusci.» argomentò la donna.

      Lui perciò sorrise e le rivolse le spalle.

      «Ci ho messo un’ora per trovare quei gusci!» ripeté alterata lei.

      E Vittore, sbruffone com’era, la guardò e, facendo l’occhiolino, rispose:

      «Grazie.»

      «Voi mi derubate!» accusò ancora.

      Vedendo allora che lui non si curava di niente e che si allontanava con gli oggetti contesi nella sacca, la donna raccolse la conchiglia di una lumaca di mare e gliela gettò addosso, prendendolo sulla nuca.

      Vittore smise di sorridere e questa volta, prestandole attenzione, le disse:

      «Sono stato educato con voi, Madonna. Vi ho ringraziato per quello che non vi appartiene e vi ho trattato con rispetto nonostante le vostre accuse.»

      «Quelle conchiglie le ho raccolte io… ma non per darle a voi!»

      «Voi non avete cosa farvene… io ci campo! Ma potete sempre pagarmele se le volete.»

      A questo punto l’altra donna, una più adulta e giudiziosa, trattenne la prima per il braccio e la rimproverò in arabo.

      «Dovreste ascoltare la vostra serva… meglio lasciar perdere!»

      «La spiaggia è di tutti e sono giunta prima io.» rintuzzò tuttavia lei, replicando in tal maniera sia alla serva che al raccoglitore di conchiglie.

      «La spiaggia è mia e vi giunsi anni or sono… Ora, se volete scusarmi, Signore mie… io ho da lavorare.»

      Improvvisamente un tuono echeggiò su tutta la superficie del mare e per il fianco scosceso del Bel Grin. Si addensarono allora i nuvoloni e qualche goccia di pioggia cominciò a bagnare la rena della caletta.

      Dunque le due donne si dettero una mossa per rientrare e passarono a lato di Vittore.

      «Spero che abitiate in queste contrade, altrimenti dovete essere impazzite se credete di rientrare a Palermo prima che sopraggiunga la tempesta. Questa mattina ho impiegato quasi due ore per arrivare fin qui, e io porto calzoni e scarpe robuste.»

      Le due si consultarono.

      «Potete stare lì a discutere quanto volete, ma state perdendo solo tempo.» ribadì Vittore.

      «Dove si rintanano quelli come voi in queste occasioni?» chiese la giovane.

      E lui indicò la montagna, mentre un forte vento prese a soffiare dalla direzione del mare, tanto forte da scoprire i capelli delle due. Vittore perciò prese ad inerpicarsi sul declivio fino a giungere sull’ingresso ampio e spazioso di una caverna.

      «Vostro marito non vi vedrà tornare se non prima di sera.» la buttò lì Vittore, una volta al sicuro.

      «Verrà a cercarmi quando non mi vedrà rientrare.»

      «O forse si consolerà con le altre sue mogli!» esclamò il venditore di conchiglie, ridendo altezzoso allo scopo di screditare le usanze dei saraceni.

      «In tal caso sappiate che sono la prediletta di un uomo molto potente.»

      Vittore, che intanto si era seduto, la guardò dalla testa ai piedi. Effettivamente la ragazza era molto carina… aveva grandi occhi neri e labbra carnose e sanguigne per natura. Era abbastanza slanciata, anche se il benessere le aveva donato dei fianchi rotondi ed un seno prosperoso. Era agghindata e abbigliata come le signore dei ricchi funzionari del Re, ma tradiva il suo stato civile per via di quella disinvoltura tipica di chi non ha conosciuto la costrizione del matrimonio.

      «Esco per raccogliere conchiglie e mi ritrovo con una perla tra le mani… Chiederò un riscatto a vostro marito, così anche voi saprete quanto gli state a cuore.»

      «Non sapete quello che dite.»

      «Non è in mio potere farvi quello che mi aggrada mentre ve ne state nella mia caverna?»

      «Non parlate seriamente.»

      Vittorie si era fatto serio ed ora si metteva in piedi minaccioso.

      Quindi la serva, la quale quasi non se la faceva sotto, spronò l’altra ad andarsene finché ne erano in tempo.

      «Dovevate pensarci prima… Adesso, invece di frignare, andate a chiamare il vostro signore e ditegli di portare con sé duecento tarì e cinquanta mute di seta.» ordinò Vittore proprio alla serva.

      «Non fate sul serio.» ripeté con un pizzico di fiatone la giovane che era padrona dell’altra.

      «Non appena la vostra serva partirà, noi cercheremo un altro rifugio; questa montagna è piena di caverne.»

      «Il mio signore può fare dislocare molti uomini armati, tanti da circondare questa montagna e passare al setaccio ogni crepa e vallone.»

      «Questo monte, che voi saraceni chiamate Jebel Grin, ha la fama di nascondere chi non vuole farsi trovare. Numerosi sono coloro che ne hanno scalato l’erta via che conduce alle sue cime alla ricerca della vergine figlia di Sinibaldo, per ottenere una benedizione, ma nessuno ad oggi è mai riuscito a trovarla. Se non si riesce a trovare una donna rinchiusa in una caverna, che mai potranno fare contro chi conosce questa montagna come le sue tasche? È


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<p>50</p>

Mons Jebel: letteralmente “monte monte”. In epoca araba la parola Jebel, usata senza appellativi, indicava il monte siciliano per antonomasia, l’Etna. In epoca normanna si finì per chiamare il vulcano “Mons Jebel”, unendo al termine arabo quello latino con lo stesso significato di monte. Col tempo le due parole si fusero e si trasformarono nel popolare “Mongibello”.

<p>51</p>

Bel Grin: probabilmente dall’arabo Jebel Grin “monte vicino”. Da questi etimi si è sviluppato l’attuale nome “Pellegrino”, famoso promontorio ai cui piedi sorge Palermo.

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