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Il Cielo Di Nadira. Mongiovì GiovanniЧитать онлайн книгу.

Il Cielo Di Nadira - Mongiovì Giovanni


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rel="nofollow" href="#litres_trial_promo">Capitolo 52

       Capitolo 53

       Regnum - Il cercatore di coralli

       Opere dell’autore

       Biografia

      Premessa

      Per quanto mille fiumi sfoceranno a mare, essi non avranno mai il nome delle acque in cui si gettano, per il ragionevole motivo che il mare non può essere la ragione di un fiume. Allo stesso modo il principio non può ricalcare la definizione del fine, né può superare la sua importanza. Si guardi alla sorgente di un fiume, alle alte rupi da cui sgorga, se ne assaggino le acque, e gli si dia un nome in base a questo.

      Non è l’azione a fare l’uomo, non è la mano a compiere l’atto, bensì il cuore, lì dove sorge il motivo, la ragione di tutto. L’essenza del peccato originale non fu cogliere un frutto, ma tutto ciò che mosse quel gesto.

      E così la cupidigia può nascondersi in ogni cosa, nella carne succulenta, nel rossore del vino, nelle forme di una fanciulla… o almeno in tale maniera giustifica chi cede. Ma la verità è che essa si nasconde esclusivamente negli occhi e nel cuore di chi sente quell’incendio consumante, quella fiamma divoratrice che è la concupiscenza.

      Tra gli illustri di questa gente di antica stirpe greca si narrava una storia, una di quelle sopravvissute al battesimo del cristianesimo e alla spada dell’Islam. Pentesilea, potente amazzone, fu chiamata a combattere in difesa dei troiani. Era una donna bellissima e, come spesso accade nei miti greci, le dee la invidiavano. Per tale motivo Afrodite la volle punire con la più terribile delle condanne: ogni uomo che l’avesse vista avrebbe provato un così inarrestabile desiderio di averla che avrebbe per certo cercato di violentarla. Pentesilea si nascose sotto la sua armatura per tutto il tempo che poté, sennonché, durante una battaglia, Achille la uccise e la spogliò delle sue armi. Solo allora fu evidente come la condanna di Pentesilea superasse la stessa morte… Achille non seppe resisterle…

      Al di là del mito, può esistere davvero qualcosa di così straordinariamente irresistibile e maledetto da scuotere irrimediabilmente i desideri di chi lo sta a guardare? Una bellezza di tale potenza da lasciar emergere le malizie dei cuori, ma anche ambivalente, in quanto capace di far affiorare le nobili virtù nell’animo dei meritevoli.

      La storia che segue è la prima di tante… la prima di tante storie di uomini e donne, e del sangue che lega ognuno di questi al proprio passato e al veniente futuro. È la storia di questa terra, dei suoi popoli, delle sue guerre, dei suoi vizi e dei suoi sopiti pregi. Tuttavia quella che segue è proprio la prima, ed essendo tale è quindi l’originale… e dunque, in quanto originale, non può che parlare del medesimo desiderio che portò, in principio, l’uomo al suo primo peccato.

      PARTE I - LO STRANIERO LEGATO AL PALO

      Capitolo 1

      Inverno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna

      Lì per quella valle in cui le norie1 non fermano mai il loro girare… lì dove il monte di Qasr Yanna poggia le sue radici… lì sul quel pianoro dov’è il Rabaḍ2

      La valle ai piedi dell’antica Enna si perdeva verso oriente; secoli di ingegno arabo l’avevano resa più fertile di quello che altrimenti sarebbe stata. Guardando ad ovest, QasrbYanna3, l’ombelico di Sicilia, si stagliava alta sul monte. Guardando a est, giù dal pianoro, ci si perdeva con lo sguardo in decine di colline, boschi, prati, pascoli e torrenti… ma anche nelle alte ruote idrauliche, in grado di sollevare l’acqua dalla vallata... e nei canali, scavati per trasportarla agli orti. Il villaggio non aveva molte case, forse una trentina, e solo una piccola moschea, come a testimoniare la poca importanza del luogo.

      Era appena passato mezzogiorno e per un terreno destinato alla coltivazione di zucche da fiaschi due uomini trascinavano per le ascelle un giovane quasi trentenne. Con i piedi questi sembrava volesse fare i solchi che generalmente fa l’aratro, tanto li puntava al suolo nudi e recalcitrava alla cattura. Teneva lo sguardo basso, e a coloro che osservavano la scena mostrava solo la testa e i suoi capelli corti. Era inverno e adesso le caviglie affondavano nel freddo fango formatisi con la pioggia del mattino.

      Il giovane indossava un calzone e una tunica strappata. Quegli altri vestivano abiti decisamente diversi: a foggia larga e colorati. Uno dei due aveva una sorta di turbante ed entrambi portavano barba e capelli lunghi.

      Quando giunsero con il disgraziato prigioniero per le vie del Rabaḍ, ognuno si raccolse curioso. Si conoscevano tutti al villaggio e tutti conoscevano gli abitanti dell’ultima casa in fondo alla strada prima degli orti, la casa dei cristiani, gli unici del Rabaḍ.

      Si lavorava alacremente in tutta la zona per rendere il terreno sempre adatto alla vita; l’intera area era a votazione agricola e le famiglie si costituivano in villaggi tutti disseminati tra le colline. Non vi era nobile e non vi era guerriero, ma solo contadini che lavoravano per conto proprio e per conto dell’esattore del Qā’id4 di Qasr Yanna.

      Proprio la casa di quest’ultimo si trovava all’esatto opposto della casa dei cristiani, nel punto più elevato. Un largo cortile, in parte recintato, si apriva antistante alla grande casa, ed è qui che giunsero i tre dopo aver percorso le labirintiche stradine e i cortili tipici dei centri ad impianto arabo. Proprio nel punto in cui si montava il mercato, e al centro esatto di tale luogo, legarono il malmenato giovane. Lo legarono alle mani e queste ad un palo. Tirarono quindi la corda all’insù, bloccandola ad una biforcazione naturale del legno dell’asta situata sulla testa del condannato, così che questi non si potesse sedere né piegare.

      Adesso entrò in scena un uomo del Qā'id, un tipo fin troppo giovane per il ruolo che ricopriva, un tale Umar. Questi era un uomo di bell’aspetto: di origine berbera, era appena olivastro di carnagione, aveva un bel paio di occhi profondi e neri, e un naso dritto e ben proporzionato. La barba nascondeva la sua età e lo faceva assomigliare di più al padre, Fuad, anche lui esattore del Qā'id e scomparso da quasi due anni.

      Venendo fuori dall’ufficio delle tasse, ubicato sul lato della casa, Umar tirò per i capelli biondo-ramati la testa del prigioniero e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Per come quest’ultimo era livido in volto, quei due dovevano essersi sbizzarriti a malmenarlo.

      Dunque furono a tu per tu, e nulla divideva quei fieri occhi neri dal fissare quegli occhi ancor più fieri ma verdi del prigioniero.

      «E così hai creduto di potermi insultare e farla franca…» fece Umar.

      Ma quell’altro non rispose; non perché non comprendesse l’arabo, ma perché qualunque parola sarebbe stata una parola inutile.

      «Non vale la pena di starci a perdere tempo.» completò l’esattore.

      Poi fece cenno col capo a uno dei due che glielo avevano riportato in legami, e questi, strappatagli del tutto la tunica, lo sferzò con una corda bagnata.

      Gli abitanti del villaggio se ne stavano tutti lì, eppure nessuno aveva il coraggio di mettere piede oltre la recinzione del cortile. I gemiti abortiti in gola da quell’uomo non fecero più impressione dei rossori sanguigni che gli si andavano configurando sulla schiena.

      Ognuno commentava con quello accanto che una cosa del genere non era mai accaduta al Rabaḍ. I familiari del tale si nascondevano invece tra la folla, avendo il buon senso e il pudore di non parlare. Gli unici assenti erano quelli della casa dell’esattore, madre, moglie e sorella,


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