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Il Cielo Di Nadira. Mongiovì GiovanniЧитать онлайн книгу.

Il Cielo Di Nadira - Mongiovì Giovanni


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vogliono essere trattati in maniera diversa.»

      Perciò adesso fu Nadira a rispondere:

      «E queste cose da quando le pensi? Da quando sei diventato il cognato del Qā'id?»

      «E tu, bambina, da quando hai imparato a rispondere al tuo walī9, protettore e garante? Da quando il Qā'id ti ha messo gli occhi addosso e gli sei stata promessa in sposa? Pensa se gli raccontassi che ti sei intrattenuta a parlare con un cristiano legato ad un palo.»

      «Il mio signore Ali avrebbe avuto compassione per quell’uomo.»

      «Bene, venga a rimproverarmi quando glielo racconterai… sempre che prima non ti stacchi la lingua perché dai tali confidenze agli estranei.»

      Nadira quindi se ne andò delusa e arrabbiata, correndo a rifugiarsi in camera sua. Al passaggio della ragazza la servitù impicciona si diradò velocemente. Dunque, gettatasi sul suo letto, abbracciando i numerosi cuscini che lo ricoprivano, prese a piangere.

      «Nadira, ragazza mia.» la chiamò Jala.

      Lei sollevò la testa, adesso con i voluminosi grossi riccioli scoperti, e prese ad ascoltare.

      «Nadira, figlia, può essere crudele rendersi conto che apparterrai a qualcuno che non conosci abbastanza; e tu hai solo diciannove anni… forse tanti, ma sei inesperta in tutto!»

      «Potrebbe staccarmi davvero la lingua?»

      «Lascialo perdere tuo fratello. Però sia chiara una cosa: mai e mai più voglio vederti parlare con quell’uomo!»

      «Io non gli ho parlato! È stato lui a chiedermi dell’acqua.»

      «E che altro ti ha detto?»

      «Niente!»

      «Bene, perché sappi che quello è un uomo pericoloso, della peggior specie, Nadira. E tuo fratello ha ragione nel volerlo punire.»

      «Poco fa hai detto il contrario…»

      «Ho detto ad Umar come si sarebbe comportato suo padre… a te dico come la penso io. Adesso va’ a vedere se tua cognata ha bisogno di aiuto; è per questo che non sei ancora la moglie del Qā'id… per assisterla nella sua gravidanza.»

      Così filavano via le ore del secondo giorno di quell’inverno del 1060 - il 452 secondo l’egira10 - in cui Corrado il cristiano era stato legato e umiliato al pari di una bestia testarda.

      Capitolo 2

      Autunno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna

      Era ancora l’inizio d’ottobre, ovvero un paio di mesi prima che Umar si vendicasse dell’insolenza del figlio dei cristiani legandolo al palo del cortile, e che Nadira litigasse col fratello.

      Sotto il sole del dopopranzo, Khalid, un giovanotto dodicenne tanto vicino ad Umar, un pastorello a cui l’esattore del Qā'id affidava le sue greggi personali, veniva rapido verso il villaggio. Presto giunse davanti la casa di Umar, correndo tanto veloce che parve una folata di vento novembrino. Quindi, ancora col fiatone, tanto che dovette reggersi sulle ginocchia e sul bastone, gridò:

      «Umar!»

      Non ci volle molto che vennero fuori alcuni della servitù, per via dell’orario affaccendati dentro l’abitazione. Una volta avvertito, il padrone di casa uscì sull’ingresso tutto scompigliato, visto che evidentemente dormiva cullato dal tiepido torpore d’inizio autunno.

      «Cosa vuoi? Che urli a quest’ora? Dormivo insieme ai miei figli… e ora ci hai svegliati tutti!»

      «Umar, perdonami! Le capre…» e s’interruppe per riprendere fiato.

      «Cos’è successo alle mie capre? Te le hanno rubate?» domandò l’altro pieno d’apprensione.

      «No, le ho messe nella chiusa.»

      «Ma le hai lasciate pur sempre incustodite.»

      «Avrei voluto mandare una capra fartasa11, tuttavia tu non avresti compreso i suoi belati.»

      Khalid rise; era chiaro che stesse prendendo in giro il suo padrone.

      Umar lo prese per l’orecchio e lo spinse al suolo con una pedata assestata sul sedere.

      «Vedi di dirmi qualcosa di importante o altrimenti nella chiusa ci metto te!»

      E quello, rialzatosi:

      «Il Qā'id, Signore… il Qā'id viene verso il Rabaḍ e chiede di te.»

      «Ali ibn12 al-Ḥawwās viene in casa mia?» chiese stupefatto Umar, aggiustandosi con una mano i capelli come se il signore di Gergent13 e di Qasr Yanna fosse già al suo cospetto.

      «Viene accompagnato dai suoi fedeli e mi ha detto di informarti che viene con buoni propositi.»

      Umar aguzzò la vista e si accorse della carovana che scendeva per le curve tortuose del monte di Qasr Yanna.

      «Torna alle tue capre!» comandò al giovane prima di filare dentro di corsa.

      Si scatenò una gran confusione in quella casa, e con molto fervore si cercò di rendere ogni cosa degna della visita del Qā'id. Pure in tutto il villaggio si scatenò il putiferio: le donne accorsero all’ingresso del Rabaḍ e alcuni degli uomini, essendo stati avvertiti, tornarono dagli orti più vicini.

      Michele e Apollonia, fratello e sorella di Corrado, si accostavano per osservare con curiosità la scena. Avrebbero reso omaggio al Qā'id al pari di tutti gli altri; non importava chi li comandasse, si trattava comunque del loro signore. D’altronde, se non fosse stato per gli stracci che Michele indossava e per i suoi capelli rasati, segni imposti per il suo essere cristiano, nessuno li avrebbe identificati come miscredenti della parola del Profeta. Tra Apollonia e le donne saracene14 del villaggio poi non passava nessuna differenza, eccezion fatta per i tratti più continentali del suo volto. D’altro canto il Rabaḍ era stato colonizzato esclusivamente da berberi già dai primi tempi. Tuttavia, altrove, islamici dall'aspetto più europeo - perché di diversa origine o perché si trattava di indigeni convertiti - pullulavano e la differenza somatica con i cristiani era inesistente. Inoltre, da duecento anni, la stirpe berbera, quella araba e quella indigena si mescolavano con regolarità, tendendo a conformarsi in un sol popolo con caratteristiche più omogenee; dunque in tutto questo il Rabaḍ faceva eccezione.

      Vi era un solo termine per identificare gli abitanti dell’Isola… non arabi, non berberi, non indigeni, né nient’altro, ma siciliani. Siciliani saraceni e siciliani greci, ovvero cristiani - così come vi erano siciliani giudei - ma pur sempre tutti da definirsi siciliani. Esulavano dal concetto di siciliani i nuovi giunti, coloro che dall’Africa erano passati in Sicilia ai tempi dell’invasione della dinastia degli ziridi e fino a che Abd-Allah non se n’era ritornato dall’altra parte del Mediterraneo. Questi, devoti all’Islam come gli altri, di etnia berbera come molti, venivano definiti africani, proprio perché provenienti dalla regione che il mondo arabo definiva Ifrīqiya15. Gli ultimi africani erano giunti appena un paio di anni prima, fuggiti dalle devastazioni che imperversavano nella terra di loro provenienza. Riuscire a creare un sol popolo tra siciliani e africani, benché tutti credenti in Allah, era un impresa ben più complicata - e in passato la questione era pure sfociata in disordini civili - rispetto a riuscire ad integrare cristiani e giudei16 nei tessuti della società islamica. La legislazione della sharia17 su questi ultimi, infatti, era chiara, e poco o nulla poteva essere interpretato; essi erano i dhimmi, i vassalli, costretti


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