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La corona dei draghi. Морган РайсЧитать онлайн книгу.

La corona dei draghi - Морган Райс


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momento avrebbe potuto usare la Casa per far funzionare le cose a dovere, sapendo in anticipo ogni mossa che la gente avrebbe potuto fare.

      Quello era per dopo, però. Per adesso, Ravin si era stancato di lei.

      “Alzati e vattene,” ringhiò, scuotendola fino a svegliarla. “Adesso.”

      Meredith afferrò il suo vestito e si precipitò fuori dalla stanza, per tornare nel posto da cui era venuta. Mentre se ne andava, un Taciturno entrò, senza nemmeno aspettare il permesso prima di farsi avanti e inchinarsi. L’uomo aveva un aspetto insignificante, tranne che per una cicatrice sotto l’occhio sinistro. Indossava semplici abiti rossi da cortigiano e i suoi lineamenti erano insipidi e irrilevanti. Ravin si alzò in piedi e si rimise addosso le sue vesti.

      “Sarà meglio che ci sia una buona ragione per questa interruzione,” disse.

      “È così, Imperatore Ravin,” rispose l’uomo.

      “Questo lo giudicherò io,” replicò Ravin. “Come ti chiami?”

      “Quail, mio imperatore.” L’uomo si inchinò di nuovo. “Sono stati trovati tre corpi, vecchi di diversi giorni.”

      “Corpi…” scrollò le spalle Ravin. “La principessa Lenore e gli altri? Se mi stai riferendo i successi degli uomini della tua truppa, non è questo il modo di farlo.”

      Il Taciturno scosse la testa. “Purtroppo no, mio signore. I corpi… sembrano essere degli uomini a cui avevate ordinato di uccidere la principessa.”

      “Che cosa?” ruggì Ravin. “E nessuno se n’è accorto? Nessuno ha notato l’assenza di quei Taciturni?”

      “Troppo tardi, vostra altezza,” rispose Quail, “e poi siamo andati a cercarli e abbiamo trovato i corpi. Ma mentre le principesse assistevano all’esecuzione, era ovvio che stessero aspettando il momento giusto per contrattaccare. Si presume che stessero… prendendo tempo.”

      “Certo, è evidente,” disse Ravin.

      “Perdonateci, Imperatore,” implorò Quail, cadendo in ginocchio questa volta. “Raramente parliamo dei nostri compiti, anche tra di noi.”

      Ravin represse la rabbia. Non lo facevano, perché era così che lui preferiva agissero. I Taciturni operavano in piccoli gruppi, per evitare che potessero acquisire troppo potere o iniziare a ignorare le sue istruzioni. In quel caso, però, significava che le principesse erano sopravvissute, e questo gli faceva venir voglia di decapitare lo stolto che aveva davanti. Non sarebbe servito a niente, però. In quel momento, il Taciturno era più utile da vivo.

      “Pensi che ti ucciderò, vero?” domandò Ravin.

      “La… possibilità c’è,” disse Quail, con voce esitante ma non terrorizzata. I Taciturni subivano delle cose durante l’addestramento che lo stesso Ravin considerava crudeli.

      “Eppure sei tu quello che hanno scelto di mandare, anche se sarebbe potuto venire chiunque altro,” affermò Ravin.

      Quail annuì a malapena.

      “Dunque sarai tu a guidare la possibilità di redimervi dal fallimento,” disse Ravin.

      Il Taciturno apparve perplesso a quel punto. “Mio imperatore?”

      “Dovete trovare le principesse e ucciderle,” spiegò Ravin e poi pensò per un momento. “Devono morire entrambe, e anche il cavaliere che veglia su di loro. Sono tutti troppo pericolosi per essere lasciati in vita.”

      Il Taciturno esitò per un secondo.

      “Non sei d’accordo?” chiese Ravin.

      “Sono due ragazze insignificanti e un pazzo,” replicò Quail. “Alcuni… alcuni non capiscono perché avete mandato proprio il nostro gruppo a uccidere la Principessa Lenore, quando avreste potuto rivendicarla o farla controllare da Lord Finnal.”

      Ravin estrasse la sua spada, facendola vorticare per poi posarla appena sotto l’occhio destro del Taciturno.

      “Vuoi un’altra cicatrice speculare alla prima?” domandò.

      Il Taciturno mantenne la calma. “Se la desiderate, Imperatore Ravin.”

      “Desidero quello che ti ho ordinato, e dovrebbe essere un motivo sufficiente a farti muovere.” Ravin non aveva l’abitudine di dare spiegazioni ai suoi uomini, ma in quel momento sarebbe forse servito. “La Principessa Lenore è sempre stata una potenziale minaccia mentre era qui. Nella mia Tana Rossa, non sarebbe stata un pericolo ma un mero trofeo da esibire. Qui, la gente avrebbe potuto radunarsi attorno a lei e potrebbe ancora farlo. Deve morire e in silenzio. Nessuno deve sapere che è sopravvissuta.”

      Il Taciturno. “Ai vostri ordini.”

      Si alzò e si voltò per andarsene.

      “Quail?” lo interruppe brusco Ravin. “Ricorda che ora ho la Casa dei Sospiri. Se i miei Taciturni falliscono di nuovo, forse alcuni di voi saranno rimpiazzati.”

      CAPITOLO TERZO

      Il sole picchiava forte su Lenore e gli altri mentre procedevano. Intorno a lei, si dispiegavano campi di grano e orzo che, separati da muretti in pietra, oscillavano dolcemente al vento mentre impronte leggere di mandriani indicavano i sentieri per arrivare da un luogo all’altro. Qua e là, uno spaventapasseri vegliava sui campi, o un gruppetto di alberi spezzava la monotonia del paesaggio.

      Stavano camminando da giorni ormai, muovendosi con cautela tra i campi sui sentieri più piccoli. Le gambe le dolevano per lo sforzo, ma sapeva di non potersi lamentare. Erano fortunati a non essere già morti e, in confronto, un po’ di fatica non era nulla.

      “State bene, principessa?” domandò Odd, che si era preoccupato per il benessere di Lenore da quando avevano lasciato la città per andare in campagna. Il suo aspetto appariva ancora bizzarro con quegli abiti nobili; la testa rasata stonava con il resto, e teneva il mantello intorno a sé, come se fosse un surrogato delle vesti di monaco.

      “Sto bene,” replicò Lenore. In verità, era affamata, stanca e spaventata ma, anche se sapeva di essere in pessimo stato, doveva essere forte. Aveva i vestiti sporchi e i lembi le si erano strappati impigliandosi in siepi di rovi che avevano incontrato sulla strada. Portava i capelli bruni legati indietro per evitare di ritrovarseli sul viso, e la luce del sole la abbagliava.

      Erin camminava davanti a lei, appoggiata a quel bastone che celava la sua lancia corta. Era più sporca di Lenore, perché si era lanciata sempre per prima nei ruscelli o al di là dei muretti. A ogni passo, si intravedeva un luccichio della sua armatura, e i suoi tratti apparivano duri sotto i suoi capelli tagliati corti, determinati a non mostrare il dolore che senz’altro provava. Si guardava intorno in cerca di minacce; scansionava ogni cespuglio, albero o campo di grano. Era stata silenziosa negli ultimi giorni, e Lenore non sapeva se fosse per la rabbia di non essere rimasta a combattere o per il dolore dovuto alla morte della madre.

      Lenore condivideva quella sofferenza, e gran parte della rabbia a essa connessa. Se chiudeva gli occhi, riviveva il momento in cui Ravin aveva alzato la spada davanti a sua madre, legata e impotente sul patibolo. Non poteva sfuggire alla vista di quella lama che sprofondava nella carne della donna che le aveva dato la vita, assistendo più e più volte al momento in cui era morta. Perché avrebbe dovuto essere diverso per Erin?

      “Riuscite a vedere qualcosa davanti a voi, Erin?” domandò Odd.

      Erin non rispose.

      “Erin,” intervenne Lenore. “La strada è libera?”

      “Sì,” rispose Erin. Si guardò intorno e lanciò un’occhiata fugace a Odd prima di rispondere. “Credo che ci sia un villaggio più avanti, oltre quegli alberi. Riesco a vedere il fumo di un camino.”

      Lenore guardò lontano e vide il fumo menzionato da sua sorella. Sperava che fosse di un camino, perché erano infinite le cose nefaste che potevano verificarsi così poco dopo un’invasione.

      “Dobbiamo essere cauti,” disse Odd, come avesse letto i suoi pensieri.

      “Cosa c’è che non va?” scattò Erin in risposta. “Avete


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